Viaggi di Solidarietà

IRAQ 29 APRILE – 7 MAGGIO 2017


Il 22mo viaggio di Solidarietà che ci porterà nuovamente in Iraq per inaugurare tre aule del catechismo ha come sua principale preoccupazione quella di portare speranza. Il titolo, lo slogan del viaggio infatti è “Seminare Speranza per raccogliere futuro”.Forse l’Occidente non crede alle difficoltà che i Cristiani in Medioriente vivono perché essi appaiono distanti dall’Europa; ma i Cristiani in Iraq soffrono a causa di partiti e gruppi fanatici islamici sorti in questi ultimi anni.

 MARIA E NASREN: UN’INFANZIA COLPITA DA VIOLENZE E SOPRUSI
Una cassetta di frutta in plastica nera che funge da culla. Adagiata al suo interno, con tanti stracci puliti al posto del materassino, una bimba bellissima, terzogenita di una famiglia yazida. Ero in visita a uno dei tanti luoghi di fortuna (un vecchio albergo diroccato) nei quali, dopo l’agosto 2014, sono state accolte famiglie cristiane e yazide cacciate dalla Piana di Ninive dai miliziani dell’ISIS, uomini fanatici e violenti in nome di una religione e di un dio che esiste solo nelle loro menti contorte e volgari. L’elemento base della religione yazida della famiglia incontrata è costituito da credenze di chiara origine iranica che consentono di stabilire un rapporto tra il gruppo yazida e lo Zoroastrismo, dove si innesta l’islamismo settario, sufico, contaminandosi a sua volta con credenze cristiane ed ebraiche. Ero accompagnato da Padre Samir, ricordato da don Gigi come compagno di viaggio in alcuni degli spostamenti raccontati in queste pagine. Dopo i primi convenevoli, Padre Samir, rivolgendosi a me, dice in italiano: “don Nunzio, i genitori della bimba vogliono chiederti una cosa molto bella”. Lo guardo incuriosito e domando: “Che cosa?” “Vogliono darti l’onore di scegliere il nome per la loro piccola. É nata solo da alcuni giorni e non hanno ancora deciso”. Tra il sorpreso ed il felice per questa opportunità, non ho dubbio: “Maria”, il nome della mia mamma. Felici, loro, per questo motivo. Ma felici anche perché, spiego, alla stessa mia mamma quel nome era stato imposto per devozione alla Mamma di Gesù. Il parroco traduce e il volto dei genitori si riempie di sorriso nella loro risposta. “Sì, Padre, ci piace molto, si chiamerà proprio Maria! Grazie per quello che fate per noi”.In Iraq ho lasciato con quel nome anche un po’del mio cuore, soprattutto nei riguardi dei bambini che sono le vittime più colpite dalla guerra, dalla violenza, dalla privazione e della sofferenza. Le strade, i luoghi e gli scenari dei quali si parla in queste pagine sono strade, luoghi e case che, come la casa nella quale ho incontrato la famiglia di Maria, ho in parte percorso anche io. Per quei luoghi e per quelle case – grazie all’8×1000 destinato alla Chiesa Cattolica – come Segretario generale della Conferenza Episcopale Italiana e quindi a nome dei Cattolici italiani, c’è l’impegno a farli rivivere e restituirli a un’auspicata normalità, fatta di lavoro e di tradizioni religiose belle e tenaci. Non è un caso se tanti uomini e tante donne, pur di non tradire la loro fede, abbiano trovato lì la morte o da lì siano fuggiti. Sono anche i luoghi dai quali proviene una Bibbia in arabo sfuggita alla furia violenta e distruttrice dell’ISIS, recuperata nella Chiesa di Um Al Mauna di Mosul e regalatami da don Gigi. La custodisco come una preziosa reliquia. Mi fa sentire infatti vicini i racconti che attraversano questo libretto dedicato a una ragazzina yazida di nome Nasren, che oggi vive nel campo profughi di Dawidiya a 70 chilometri da Mosul. Mentre scrivo questa Introduzione, si sta ancora combattendo per la conquista della parte destra della città da parte dell’esercito iracheno. Sono contento di presentare la storia di Nasren. Una storia di dolore e sofferenza. Nasren infatti è affetta da “Disturbo post-traumatico da stress” (DPTS). Altro non è che la conseguenza delle forti sofferenze psicologiche che accompagnano un evento traumatico, catastrofico o violento. Nel caso di Nasren l’evento che l’ha scatenato è stato l’incontro con gli uomini del Califfato nero e la fuga dalla propria abitazione per scampare alla morte. In Nasren il DPTS ha una manifestazione particolarmente grave perché era una bambina di 11 anni, nell’agosto 2014. L’instant book che presento non solo parla solo di Nasren, ma colloca la sua vicenda di dolore nel Kurdistan travagliato dalla situazione di migliaia di profughi che vivono in situazioni precarie. Si parla di Dawidiya Refugee Camp, si descrivono i momenti tutt’altro che tranquilli di una Celebrazione Eucaristica in una chiesa distrutta da Daesh nella città di Mosul, c’è spazio per descrivere una prigione di donne, voluta dall’ISIS, dove venivano recluse le donne yazide in attesa di essere vendute al mercato della città. Il tema dei profughi perseguitati, di un’infanzia colpita da violenze e soprusi; il tema della mancanza di dignità della donna riempiono le pagine di questa piccola pubblicazione per una lettura che non domanda tanto tempo ma richiede tanta passione. Pensando alla piccola Maria e a Nasren, vittime di soprusi e di guerra mi tornano alla mente le parole pronunciate da papa Francesco in occasione della preghiera dell’Angelus, il 27 luglio 2014: “Fratelli e sorelle, mai la guerra! Mai la guerra! Penso soprattutto ai bambini, ai quali si toglie la speranza di una vita degna, di un futuro (…). Bambini che non sanno sorridere”. Il libretto che don Gigi ci propone vuole essere un seme di speranza per questa infanzia, affinché questi bambini tornino a sorridere. Un seme di speranza che, gettato, possa permettere di raccogliere un futuro più dignitoso. Me lo auguro per Maria e per Nasren, ma anche per tutti i bambini del mondo, come per una piccola bimba africana con una mamma sieropositiva di nome Santina, in onore proprio di Santina Zucchinelli, la madre di don Gigi da cui fondazione – che propone la collana #VoltiDiSperanza – prende nome.
S.E. MONS. NUNZIO GALANTINO
SEGRETARIO GENERALE DELLA CEI

VERSO ERBIL
Di nuovo in viaggio verso l’Iraq, dove il 1° maggio inauguriamo, a Mangesh, tre aule di catechismo. Questo viaggio si apre con lo sfondo del viaggio di papa Francesco in Egitto dopo la strage della domenica delle palme, il 9 aprile scorso, di molti cristiani copti. Essere cristiani in Iraq non è semplice e, come per l’Egitto, significa incontrare gente che per il nome di Gesù ha lasciato tutto a Mosul ed è scappata dalla Piana di Ninive. Questa gente mi ha stregato. Hanno un fascino magnetico. Vivono nella povertà di un campo profughi, oppure a Qaraqosh, Teleskof o Mosul rischiando la vita. Trascorrerò sette giorni con loro, respirerò la loro stessa aria, quella della paura di Daesh, quella della forte preghiera che oppongono all’odio, quella del perdono. Vado laggiù in quell’inferno a leggere la vita, a cercare di capire meglio chi è il cristiano e come si deve testimoniare Gesù. Ieri il cardinale Comastri, nella confessione che ho fatto nel giorno di ritiro, mi ha lasciato con una frase di Primo Mazzolari che molto mi fa riflettere durante questo quieto volo verso Istanbul. “Il rischio del cristiano in occidente è quello di costruirsi una bella stanza con l’aria condizionata e tutte le comodità vicino al Calvario!”. Quanto sento vera per me questa profonda riflessione! Parliamo sì del Calvario e di Gesù ma nel frattempo ci costruiamo una bella stanza piena di cose che ci rendono la vita comoda. Guardo la mia vita e vedo quante belle comodità possiede, studio ben riscaldato, caffè a metà mattina, pranzo e cena assicurati e buoni, doccia con acqua calda e acqua fredda…  Questi viaggi di solidarietà mi fanno aprire la porta e uscire fuori. E fuori ti accorgi che la gente vive il Calvario. Dormirò in un campo profughi con le famiglie di cui abbiamo adottato a distanza i bambini, mangerò il loro cibo e probabilmente prenderò la dissenteria come la scorsa volta. Sentirò parlare di Daesh, entrerò a Mosul e vedrò in faccia la guerra. Entrerò a Qaraqosh e vedrò i disastri, le lacrime e la povertà dei cristiani. Che fai don Gigi? Perché? Perché il cristiano non può vivere in una comoda stanza con tutte le comodità vicino al Calvario, ma deve aprire la porta della stanza che con tante fatiche si è costruito e capire quanto è ridicolo. Loro, i cristiani dell’Iraq, saranno i miei maestri. Io spero ogni volta di tornare migliore ma ogni volta torno e mi sento peggiore, vedo quanto, ma quanto lavoro devo compiere per ritornare al Vangelo. Sì in questi viaggi il Vangelo mi accompagna, mi fa da cuscino quando dormo nei container dei profughi, oppure lo medito seduto nella poltrona dell’aereo… È un viaggio duro, difficile e pericoloso, ma proprio per questo credo che potrà purificare la mia vita. Trovare un piccolo bambino che ha visto in faccia gli orrori della guerra, un bimbo che vive una sindrome post traumatica da stress, raccontare la sua vita, come quella del piccolo Santiago, è uno stimolo forte a scrivere e a capire la vita. “Se non diventerete come bambini non entrerete nel regno dei cieli”. Da quelle parte i bambini soffrono molto. Vorrei capire dai loro occhi la strada per il paradiso. E poi c’è lei: la paura che in questo viaggio sento e avverto, che non nascondo e che vorrei trasformare in una provocazione. Il Signore, la Madonna e la Santina mi aiutino. Sono le 18.15. Ci dicono di allacciare le cinture. Atterriamo a Istanbul. Questa sera un altro volo mi porterà ad Ankara e poi nella notte a Erbil dove atterrerò all’una e quarantacinque. Seminare speranza per raccogliere futuro!

MANGESH
La prima giornata in Iraq è stata occupata dal viaggio da Erbil a Mangesh. Scrivo nella povera canonica adiacente alla chiesetta caldea. È ormai tardi e le luci tenui delle finestre del villaggio si sposano con le stelle in cielo, la mezzaluna e un profondo silenzio che conferisce al paesaggio un qualcosa di misterioso. Sono stanco. Il viaggio in jeep con i due peshmerga, poi le riunioni a Erbil per programmare la visita di Mosul dilaniata dalla guerra con una guida cristiana e, soprattutto, il lungo viaggio in aereo dall’Europa per giungere fino a qui mi danno pesantezza alla testa. Ma prima di dormire non posso non descrivere il clima elettrico che si prova nella vicinanza con Daesh. Un conto è parlare in Italia di Daesh, un conto è parlarne qui, vicino a Mosul. Il primo fatto importante è che i cristiani stanno lasciando l’Iraq, primi tra tutti i sacerdoti. Sicuramente non siamo un buon esempio per i poveri cristiani che qui hanno perso tutto. I sacerdoti vengono inviati a Roma a studiare e poi… come per africani, latinoamericani, anche gli iracheni sentono il fascino prepotente e forte della bella stanza con aria condizionata vicino al Calvario che l’Occidente propone. In più qui si muore, si muore per Gesù o si vive senza niente per Gesù e allora è meglio scappare. Dall’Iraq i cristiani fuggono e se si continua così in 20 anni qui non vi saranno più cristiani. Grazie a Dio molti di loro cocciutamente restano ed è loro che sono venuto a incontrare. I cristiani vivono in una parte di questo piccolo villaggio e i musulmani in un’altra. È molto difficile una convivenza pacifica e rispettosa. La sfida è quella di amare i nemici, una sfida potente e grande che Gesù ci ha lanciato e che i cristiani qui accolgono. Amare i nemici, chi ci odia, chi porta via tutto, chi chiede la conversione all’islam o ti ammazza… Mentre scrivo qui a Mangesh, in questo luogo sperduto del Kurdistan iracheno, mi chiedo se sono in Iraq, oppure a Gaza o a Garissa. Il silenzio è formidabile e mi entra nelle ossa. È una strana sensazione questa sera. Il silenzio così intenso, così profondo, così denso, sembra volermi parlare. Alcune volte mi incute paura, sento in lui il respiro dell’ISIS: altre volte mi dà pace mentre guardo il crocifisso che porto al collo oppure il volto di Gesù nella immaginetta in tasca. Il silenzio diventa il luogo della sintesi, della riflessione e della preghiera in questa notte irachena. Sicuramente l’islam è una concezione di vita totalizzante e assoluta che non ammette interlocutori. Qui tutto è islam, sottomissione! Qui islam non è solo religione o, almeno, non è solo quello. Per me la religione prima di tutto è il mio rapporto personale con Dio e con i fratelli. In questo sistema invece islam è tutto, la religione è tutto. Qui mi sono reso conto che l’islam è un processo globale: spirituale, sociale, intellettuale, familiare, economico, politico, militare; include il modo di mangiare, di vestirsi, di stare con gli altri, di vivere. L’islam entra in ogni cosa. Non c’è campo che sia esterno all’islam. In questo piccolo villaggio, nella parte musulmana, il modo con cui relazionarsi con gli altri non è personale. Se parlo con un uomo o una donna è l’islam a deciderlo. Se frequento uno straniero, come lo sono io italiano in Iraq, prima mi assicuro che lui sia credente e musulmano. L’islam penetra in tutto. Le scelte sociali, politiche, commerciali sono fatte a partire dall’islam! Ora il silenzio mi sta soffocando. Questa religione, a me cristiano, soffoca. Mi sento soffocare. Mi risulta difficile dialogare. Rimane un profondo rispetto per persone buone che praticano questa religione, ma la mia religione, quella cristiana, è un’altra cosa e mi regala fiumi di libertà! Mi rispetta, la mia religione! Non mi condanna, non mi punisce! La mia religione è una persona che si chiama Gesù. Lui mi ama, mi insegna ad amare, non a odiare, mi insegna a morire non a vivere, mi insegna a perdonare non a vendicarmi. Penso alla vedova del cristiano copto morto tre settimane fa al Cairo, tra i tanti uccisi dal fanatismo islamico. La moglie intervistata in televisione perdona gli assassini e il giornalista… rimane sbigottito… Ora il silenzio invece mi commuove e mi riempie di forza. Mi riempie delle lacrime dei cristiani che proprio qui dove scrivo, nella Piana di Ninive, il 6 agosto 2014 furono scacciati perché cristiani, perdendo tutto. Il silenzio, ora amico, mi porta da lontano i loro singhiozzi intrisi di lacrime e testimoni di una fede profonda. La fede che sono venuto qui in Iraq a mangiare! La fede che sono venuto a riscoprire qui e non nei banchi dei miei vecchi studi teologici all’Università Gregoriana. Questa è la fede dei poveri che qui sono poveri proprio per il nome di Gesù e che qui hanno dato la loro vita per Gesù. Mi scriveva Sellica in un messaggio whatsapp: “Sono per te giorni belli, ma molto duri”. È vero sono giorni bellissimi e pieni di soddisfazioni, domani inaugureremo le aule del catechismo, ma sono giorni densi di riflessione e di maturazione personale. Pensare che fino a qui, in questo inferno, mi ha spinto la sofferenza di Santina. È lei che con i suoi sette anni di dolore ha trasformato il mio cuore e mi ha iniettato il desiderio di incontrare la carne di Gesù nei sofferenti e nei poveri. Poi è arrivato lui, papa Francesco, che mi ha ricordato, come Santina e come tutta questa meravigliosa gente della Piana di Ninive, che l’unico estremismo che il cristiano conosce è quello dell’amore. Vado a dormire tranquillo. Questo silenzio bizzarro si è ora calmato davanti al crocifisso e porta la mio cuore un’infinita pace. Chiudo gli occhi, le palpebre sono pesanti e penso che gusterò un profondo sonno. Sono al sicuro: tutti i cristiani che qui hanno dato la vita e che hanno bagnato con il sangue questa Piana di Ninive mi proteggono, mi cullano e mi insegnano il fascino della libertà della religione cristiana, quella libertà che giunge a donare la vita. Buona notte dalla Piana di Ninive, Il Signore ci conceda una notte serena e un riposo tranquillo…

ARADEN
Il cuore del viaggio è qui: l’inaugurazione di tre aule di catechismo nel piccolo villaggio di Araden a cinquanta chilometri dal confine turco, ma vicinissimo a Mosul e alla Piana di Ninive. Piove forte questa mattina. Scrivo di ieri 1° maggio, quando abbiamo inaugurato le aule. Mentre scrivo non posso, però, non descrivere la bellissima natura attorno a me. Un forte trionfo di verde. La pioggia torrenziale mi ricorda le piogge tropicali del Vietnam anche se lontani da quel clima. Fa freddo, piove, ma l’acqua pulisce l’aria dalla fine polvere del deserto vicino. Il vento forte porta anche qui questa polvere, l’acqua torrenziale di questa mattina pulisce l’aria e la rende tersa. La primavera è in fiore. Il verde è prepotente e mi offre sollievo agli occhi. Il lungo e tonificante riposo della notte mi ha ridato forze dopo la giornata piena di impegni di ieri. Scrivo prima di partire per il campo profughi di Dawidiya dove passerò due giornate condividendo una vita misera e tormentata. Ieri nel pomeriggio, dopo la cerimonia suggestiva del mattino, abbiamo organizzato il mio soggiorno. Molte volte in Italia vado in crisi sull’attività dell’Associazione, alcune defezioni, poi gli impegni… Mi chiedo se sono un esaltato o se questa sia volontà di Dio. Questi segni mi convincono profondamente che quanto stiamo facendo è buono. Quindicimila euro. In Italia non ci compri neppure un garage, forse la macchina, qui costruisci un palazzo! Si fa per dire, ma chi ha visto il video si rende conto di quanto bene si può fare con pochi soldi. La stessa cosa in Kenya con la bella chiesetta di Garissa oppure con il muro all’asilo di Villa San Roman in Perù o l’orfanotrofio in Vietnam! Ieri ho vissuto un momento di forte significato e di commozione interiore. Vedere la bella costruzione rifinita e pulita, le aule linde che profumano di intonaco mi ha scaldato il cuore. In quei momenti vorrei che tutti voi foste con me, che tutti voi provaste il gusto di tagliare un nastro… come è successo a Bergamo a mia sorella Carolina, a Olinda, a Emanuele, a Caterina…. Arriviamo alla parrocchia e la gente ci attende. Saranno duecento persone che ci aspettano. Il villaggio è piccolo come Conima sulle Ande del Perù, anzi molto più piccolo, ma ci sono proprio tutti! Ci sono tre suore venute da Mangesh, c’è padre Samir parroco di una parrocchia vicina, il vicario generale padre Imad. Una bambina mi viene incontro con bellissimi fiori blu che offro alla Madonna. Mi dà un bel bacio sulla guancia come sanno fare i bambini. Poi, al piano terreno, entriamo nel salone dove iniziano i discorsi. Parla padre Yoshia, poi il vicario generale e poi tocca a me. I bambini intercalano gli interventi con bellissimi canti. Parlo di noi, dell’Associazione, ma parlo anche di lei, di Santina del suo grande dolore che per sette anni ha devastato la sua vita e ha cambiato il mio cuore. Parlo del suo dolore che spinge tutti noi ad asciugare lacrime per il mondo. E qui di lacrime ce ne sono tante, ci sono fiumi di lacrime. Lacrime versate qui per il nome di Gesù, per la discriminazione, per la povertà e l’ingiustizia che sempre una guerra produce. Parlo di loro, della loro formidabile testimonianza. Parlo della comoda stanza con aria condizionata che in Italia noi ci costruiamo vicino al Calvario e…. parlo del loro Calvario! Mente parlo non nascondo la mia commozione. Sto incontrando una comunità crocifissa per il nome di Gesù, una comunità tesoro prezioso per la Chiesa. Altro che solenni cerimonie in San Pietro a Roma, qui il sangue dei martiri scorre. Loro oggi, con il loro sangue, sono il sangue di Gesù. Io credo che se oggi volessimo vedere il gruppo sanguigno che aveva Gesù dovremmo analizzare gocce del loro sangue e lì troveremmo il vero gruppo sanguigno di Dio che è il perdono, è l’amore Questa gente è martire, ma non si vanta. È gente semplice con grandi occhioni. Ti guarda con tanta semplicità e umiltà, fiera di essere cristiana e umile nel sopportare le privazioni. Li ringrazio tutti e li metto giù nel mio cuore. Li voglio inviare a voi, ora, con queste parole stupide e inappropriate a descrivere la loro santità. Io ci provo lo stesso… Magari, se leggete in modo calmo e nella preghiera, potreste intercettare le loro voci, vedere i loro occhi grandi e buoni, asciugare con la preghiera alcune delle loro lacrime. Abuna Yoshia mi fa segno di seguirlo. Ci alziamo e usciamo all’aperto. Prima dei gradini di ferro c’è un fiocco bianco. Che emozione…. Un gesto semplice, in un piccolo villaggio di sole quattrocento persone ma con un cuore grande. Il piccolo villaggio nessuno lo conosce, non appare neppure nella carta geografica. Noi andiamo a scegliere come Associazione i punti più dimenticati e sconosciuti del mondo e lì vogliamo dare una piccola speranza. Quelle tre aule sono un seme di speranza per questa povera gente che promette un futuro. Sciolgo il nastro e un grande applauso accoglie il gesto. Le donne cantano, i bambini battono le mani e la festa ha inizio. Bambini, donne, giovani: una girandola di colori suoni e canti che mi inebria. Sono sulla strada giusta! Non è sbagliato fare queste cose, non siamo fuori strada, ma sulla strada dura e stretta che conduce alla Vita, al paradiso. Sono felice nel cuore. Entriamo nelle diverse aule e a una parete esterna leggiamo le lettere di Giulia e Cinzia che hanno finanziato l’opera. Le parole italiane sono tradotte in arabo, erano state lette prima dal parroco ma le donne, curiose come in tutto il mondo, si fermano, rileggono, commentano tra di loro e soprattutto guardano la fotografia di Giulia e Cinzia. Commentano il taglio dei loro capelli, il loro vestito… la loro età! . Pettegolezzi di un villaggio di quattrocento persone che accomuna però tutte le donne del mondo. Qualcuna mi pone una domanda su chi sia Giulia. Rispondo che è stata una mia compagna nelle scuole elementari. Chi è Cinzia? Un medico della pelle in Italia, una grande amica. La risposta delle donne è “Ah ah!”. Poi alcune frasi sulla donna medico e grande rispetto per la sua professione. Veramente mi colpisce questa inaugurazione. Butto giù tutto nel cuore. Anche queste donne sono simpatiche nelle loro chiacchiere. I bambini mi aspettano, forse per l’enorme torta che li attende e che insieme dobbiamo tagliare. Corro da loro e le loro vocine mi accolgono con festa. Tagliamo la torta enorme. Ė buonissima e, mentre inghiotto un dolce e prelibato boccone, nel mio cuore dico: “Santina è viva e continua a vivere in tutti i luoghi più disperati”. Respiro forte e con l’aria fresca entra nei polmoni una pace incredibile. È il primo di maggio, penso a Maria e recito nel mio cuore un’Ave Maria consacrando questo luogo di dolore a lei. Devo chiude l’Ipad, si parte per Dawidiya. Perdonate gli errori, la confusione e le parole, ma voi che mi volete bene sapete intercettare la mia scrittura e forse la amate proprio perché proviene da un luogo di dolore, dalla Piana di Ninive, e non da un comodo studio con aria condizionata… forse più vicino al Calvario che in Italia. Se vi piace fatelo girare. Un forte abbraccio da qui.

NASREN
Distrubo post-traumatica da stress. Se si cerca in Google appare tutto il dramma di questa espressione. Le ferite più profonde della guerra e del male non sono le ferite nel proprio corpo, ma quelle nel cervello e poi nel cuore. Questa patologia è invalidante o, comunque, gravemente compromettente la salute della persona che, dopo un trauma di particolare forza, ne risente per tutta la vita. Persone dissociate, forti depressioni irrecuperabili, malessere continuo dell’umore, incubi, urla… Se poi questo si applica non a un adulto ma a un bambino, il male è ancora più profondo e doloroso. Sono venuto in Iraq questa volta per farmi raccontare il terrore non da un adulto ma da un bambino e…. qui non c’è che l’imbarazzo della scelta Nel campo profughi in cui sto vivendo alcuni giorni qui in Iraq, al Dawidiya Refugee Camp sotto la tutela dell’UNCHR, mi indicano una ragazzina di 14 anni, quando ha subito questo trauma da stress aveva 11 anni. La bambina non è cristiana ma è yazida, come Hazar, una religione che l’islam odia profondamente, una razza bellissima dai capelli chiari e dagli occhi chiari. Come per Hazar il problema della lingua è forte perché la bambina non parla arabo ma curdo. Giunto al campo ho la fortuna di incontrare Jamal un giovane yazida che parla inglese e, dunque, la traduzione passa dal mio inglese direttamente al curdo. È sera. Piove a dirotto nel campo di Dawidiya e, quando piove, tutto diventa un casino. Non ci sono fogne e l’acqua allaga i viottoli, le stradicciole; il fango imbratta tutto. È buio, piove a catinelle, tutto è infangato e poi fa freddo, molto freddo. Il campo diventa squallido. La povera gente ammassata nei container sembra risentire questa malevola impressione di disagio. Sono persone che sono fuggite dall’ISIS e che qui non hanno nulla. Il campo è cristiano e yazida, non ci sono musulmani. Proprio in questo inferno vogliamo gettare un piccolo seme di speranza, vogliamo raccogliere una storia di dolore tra le tante e poi raccontarla, spiegarla, diffonderla perché il mondo e la gente possa riflettere e diventare migliore. Forse anche tu che sei arrivato a questa riga potresti essere profondamente interrogato da questo scritto. Accompagnato dal mufktar del campo giungiamo al container dove abita la nostra Nasren. Sono stanco, sono le otto e mezzo di sera. Anche la famiglia che si compone di sei persone marito, moglie e figli è stanca dal peso della giornata ma mi accoglie con grande gioia. Non hanno nulla: quattro stracci, in un angolo dei materassini in gommapiuma che fanno da materasso la notte e di giorno sono divani dove sedersi e nulla più. Ci offrono un bicchiere di acqua e un tè. Non voglio rubare troppo tempo alla ragazzina e ai bambini ma non voglio neppure perdere l’occasione di sentire e vedere il terrore dell’ISIS con gli occhi di una bambina di soli 11 anni. Mi rivolgo diretto al padre: “Molte volte, Hamir, i fatti che riguardano Daesh e la crudezza del mondo fanatico islamico sono raccontati da adulti o da anziani. I bambini, i piccoli non hanno invece voce. Li riteniamo incapaci di raccontare l’orrore. Siamo convinti di interpretarlo meglio e più a fondo e poi, a ragione, non vogliamo far ricordare loro queste terribili cose!” Hamir, il papà di Nasren fa cenno di sì con il capo, mentre Jamal traduce dall’inglese al curdo. Poi mi guarda con intensità per capire dove voglio andare a finire. Continuo in modo deciso: “Hamir, questa sera vorrei non tanto parlare con te o con la tua famiglia, ma solo con tua figlia Nasren di quanto è avvenuto”. L’uomo yazida mi interrompe e dice “No. Non voglio questo! Tu ci devi aiutare a lasciare tutti l’Iraq! Non abbiamo neppure lo status di rifugiati…”. Mi rendo conto che sto mettendomi su un binario morto. Allora chiedo a Jamal di far ben capire quanto sto per dire, Jamal si concentra meglio sulle mie parole. “Hamir, forse non ci siamo capiti. Io non sono un politico, neppure un assistente sociale. Sono qui come sacerdote per ascoltare il dolore inespresso di tua figlia, sono qui a riflettere sulla sua sofferenza e a far sì che quanto ha visto non sia vissuto invano. La sua triste esperienza può trasformare in pungolo di riflessione per molte persone che leggeranno di lei. Io non posso fare nulla per farti lasciare il Paese. Se vuoi posso invece far conoscere la vostra triste storia, attraverso le parole di Nasren”. Mentre Jamal traduce, assaporo un sorso di tè bollente che mi fa bene, mi riscalda e mi scende giù dandomi energia. Hamir tace, si accende una sigaretta e dopo aver fatto un paio di tiri, mi risponde: “Allora è una cosa molto diversa! Padre sei il benvenuto nella mia famiglia. Certo che voglio condividere con te la nostra storia e mia figlia, sono sicuro, lo saprà fare molto bene!”. Tiro un respiro di sollievo. Sono ormai le nove di sera ed entrare in un’altra casa per iniziare una nuova chiacchierata mi risulta molto problematico anche perché il mio interprete non ha molto tempo a disposizione. Mentre parliamo, arriva lei, Nasren. La ragazzina non è molto grande, è gracile e sembra avere meno di 14 anni. Ė dolcissima. I lineamenti sono davvero belli: minutina, capelli lunghi di castano scuro, due begli occhi scuri e uno sguardo dolce e intelligente. Mi presento. “Ciao Nasren. Sono don Gigi, un prete cattolico. Sono qui con te questa sera, per ascoltarti, per lasciarti parlare, per sentire il tuo cuore e avvertire il tuo dolore, magari le tue lacrime. Vorrei scrivere di te, se sei d’accordo. Vorrei scrivere del tuo cuore, vorrei scrivere del tuo animo. Mi aiuti a entrate nel tuo cuore? Vorrei dargli una tenera carezza e vorrei sentire il suo battito. Vengo da lontano, dall’Europa, e vorrei ritornare in Italia per raccontare la tua vita. Noi, nel mio paese, non sappiamo cosa sia ISIS e cosa sia Daesh. Se mi aiuti lo potrei capire di più. Mi vuoi dare una mano? Ti va?”. La ragazzina guarda il padre e i fratellini che giocano sulle stuoie e cerca nello sguardo del padre una risposta su quello che deve fare. La risposta puntualmente arriva. “Non avere paura. Il padre vuole sapere da te cosa ė successo alla nostra famiglia. È la prima volta che puoi parlare con altri di quanto hai vissuto. Nasren,  non deludermi e racconta quanto il sacerdote ti chiederà”. Nasren mi guarda e spalanca un sorriso solare e tanto bello, così in contrasto con il terribile e freddo temporale che fuori sta facendo danni nel campo. Sento il contrasto e provo un brivido che quasi diviene presagio della storia che Nasren mi sta per raccontare. “Iniziamo, Nasren, da quando sei nata…”. La ragazzina lentamente inizia a parlare: “Sono nata a Nesery, un villaggio vicino a Sinjar il 9 aprile 2003. Avevo 11 anni quando sono successi questi fatti”. Vedo con piacere che la bambina ha una intelligenza brillante e che riesce a intuire quanto vorrei conoscere. Una sorta di empatia si sta instaurando. “Cosa è successo piccola?”. “Devi sapere che mio papà era mufktar nel nostro villaggio, una specie di sindaco… Era l’agosto 2014. Più voci ci dicevano di lasciare il nostro paese per non essere vittime di Daesh. Noi non volevamo credere a queste voci. Un giorno si presentarono…”. “Chi?” domando in modo precipitoso e forse stupido. “Gli uomini di Daesh, dello stato islamico. Erano cinque persone. Tre di loro avevano il viso coperto ed erano vestiti di nero fino ai piedi. Avevano al collo kalasnhikos e un’aria minacciosa”. “Come hai reagito?”“Don Gigi – inghiotte amaro Nasren – sono rimasta di pietra, non riuscivo più a muovermi dal terrore. Quegli uomini chiamavano i loro capi al cellulare e la terribile domanda che ho udito è stata questa: ‘Questi li dobbiamo uccidere o no?’ Dall’altra parte del telefono la risposta dei loro capi fu: ‘Se hanno armi uccideteli subito, se sono disarmati lasciateli vivere, ma dite loro che devono abbandonare il villaggio’. Mentre quell’uomo domandava ai suoi capi se mi doveva ammazzare, ho inghiottito amaro e non riuscivo a capire se era un terribile scherzo o meno. Eravamo in casa quando gli uomini dell’ISIS, sono venuti. I loro volti erano mostruosi. Ci dissero ‘Non ci create problemi e non li creeremo a voi!’. Mio padre e mio fratello erano nascosti in casa perché Daesh uccideva tutti gli uomini. Ci dissero: ‘Non fuggite se no vi uccideremo, restate in casa e non uscite’. Dopo queste parole pretesero che fossero loro consegnate l’automobile e le armi di mio padre. Le consegnammo e loro, per intimorirci, spararono un colpo sopra le nostre teste. Da quel giorno occuparono militarmente il nostro villaggio. (Questo testo me lo invia, dal campo profughi iracheno, Jamal, il mio interprete, in inglese con Viber il 19 maggio alle 13.51. Ė una traduzione dal curdo. Nasren ha voluto, nei giorni seguenti, fare questa piccola ma significativa aggiunta che volentieri inserisco Ci lasciarono. Un profondo e gelido silenzio entrò nella nostra casa alla loro uscita. Nessuno aveva il coraggio di parlare e la giornata trascorse in un clima di grande paura. Una cosa era certa e non detta: nessuno di noi voleva lasciare la casa e io meno di tutti. Dopo la nostra misera cena andammo a dormire. Mi sdraiai nel letto ma non riuscivo a dormire, padre, ero agitata e ho passato tutta la notte con una grande angoscia nel cuore. Quell’uomo nero e mascherato avrebbe potuto uccidermi per un semplice ordine dei capi. Non avevo mai sentito il brivido della morte così vicino. La mattina corsi da mio padre che mi abbracciò forte e mi disse: ‘Non ti preoccupare Nasren. Tutto andrà bene!’ Ma non fu così. Due giorni dopo sentimmo la notizia dal paese vicino che l’ISIS aveva massacrato tante persone che si erano rifiutate di partire e tra di essi c’erano anche i miei due zii! Mi misi a piangere al pensiero della loro morte. Tutti eravamo commossi per questo e molto tristi. Il giorno dopo ritornarono e fu peggio di prima. Entrarono in casa e iniziarono a gridare. Poi mi presero da parte e cominciarono a gridarmi forte, forte nelle orecchie: ‘Ti devi convertire all’islam. Se non lo fai ti ammazziamo!’.” Tento di scrivere quello che Nasren mi dice ma la commozione si intromette nello scritto. Come è possibile? A una piccola bambina un tormento così forte e così inumano? Uomini vestiti di nero e mascherati urlano a una piccolina di convertirsi all’islam oppure la morte. Pensate a cosa può succedere alla testolina di un bambino dopo tali minacce? Che tipo di guasti profondi e irreparabili può generare? La piccola mi guarda. Ė visibilmente scossa nel ricordare ma ha un carattere forte e riprende il discorso alla mia precisa domanda. “E tu, Nasren, cosa hai fatto davanti a quelle formidabili urla nelle tue orecchie? A quelle folli urla del terrorista nero?”. “Padre, io ero accucciata sulle mie gambe e lui mi sovrastava. Era alto due metri, grosso, con la faccia coperta. Mi sentivo morta. Per la paura abbassai la testa verso terra e non dissi una semplice sillaba. L’uomo sembrava arrabbiarsi ancora di più davanti al mio mutismo e mi sfidava… ‘Se non ti converti ti ammazzo!’. Quelle urla nella mia testa esplodevano e facevano il vuoto, creavano il nulla, toglievano il ragionamento e seminavano panico… Uno dei loro capi lo chiamò e allora lui smise di torturarmi con quelle frasi e se ne andarono. Mia madre mi abbracciò forte forte e il sangue tornò a scorrere sul mio volto pallido e cadaverico. Mio padre prese la decisione e disse: ‘Basta! Dobbiamo scappare. Non posso tollerare che ritornino in questo modo. Ci potrebbero uccidere e la potrebbero uccidere. Questa considerazione di mio padre, detta da lui per proteggermi, ebbe invece su di me l’effetto contrario. Iniziai a dire a me stessa: ‘Allora è tutto vero, non è una mia impressione. Se mio padre dice così quello che ho vissuto è davvero un pericolo serio, non è un’allucinazione!’. Feci finta di niente… ma questa è la cosa peggiore: fare finta di niente davanti al proprio dolore, bloccarlo, buttarlo giù giù in fondo al cuore e poi chiuderlo a chiave, costruire un muro di cemento armato e poi una barriera di filo spinato per impedire che esca fuori e che risusciti! In quel modo il dolore spacca il cervello e il cuore e si inizia a vivere in due modi diversi: perfettamente calmi all’esterno e profondamente in agitazione all’interno”. Accarezzo Nasren… Mi sorride e mi dona un bacio. Mi commuovo. Continua a parlare e il padre ad asciugarsi gli occhi. Fuori il diluvio universale. Passerò con loro la notte. Fuori il fango impedisce di muoversi… “Nasren cosa è successo dopo?”. “Papà prese la decisione di fuggire la sera per non essere scoperti, come era avvenuto ad altri, ed essere uccisi… Preparammo le poche cose che ci potevamo concedere per una fuga pericolosa e precipitosa, piccole cose: indumenti e niente di più. Che triste giornata, padre! Dentro di me il gelo forte di quella paura chiusa a chiave nel cuore. Erano le undici di sera e uscimmo di casa verso i monti di Sinjar. Ti immagini, padre, la paura della notte? Il buio nel cuore, nelle gambe, negli occhi. Una tragedia. Nessuno parlava. Mamma e papà erano in grande sintonia. Mio padre avanti e poi io e i miei quattro fratelli. Mamma chiudeva la nostra carovana di disperazione. A un paio di chilometri da casa, nel buio illuminato dalla luna estiva in cielo, di nuovo il terrore. Sul ciglio destro della strada c’erano due cadaveri con la testa in basso. Tutti i loro vestiti erano pieni di sangue. Uno aveva quattro fori di proiettile nella schiena e l’altro tre. Ma il dramma doveva giungere ora! Mio padre si avvicinò ai cadaveri e mi fece segno di tenere la torcia… Girò il volto del morto e io lanciai un urlo dallo stomaco. Era mio zio Jassin. Mio padre lasciò il cadavere. Mi abbracciò forte e mi mise una mano sulla bocca. ‘Se non stai zitta, Nasren, ci possono sentire e ci uccido tutti’. Lo spavento mi rese obbediente come un cagnolino. Io che prima di allora trovavo gusto a fare il contrario di quanto mi dicevano i miei genitori! Mio padre ci fece allontanare di corsa, girò anche l’altro cadavere e mi disse che era l’altro suo fratello! Iniziammo a correre per più di duecento metri. Poi ci mancava il fiato e rallentammo con le lacrime agli occhi. Non era ancora arrivata la mattina che, dopo Sinjar, prima della montagne, incontrammo una donna incinta ferita all’addome! Un’altra forte emozione che mi distruggeva il cervello. Ci inerpicammo per le montagne per due giorni e poi entrammo in Siria. Da quella notte, don Gigi, nella notte mi sveglio, grido, ho incubi! Poi provo angoscia e dolore profondo…”. La piccola, mentre parla, mi mostra un carattere forte, una tempra d’acciaio, ma anche una sterminata debolezza propria dei piccoli. È confusa, la piccola. Non gli ha fatto bene ricordare queste cose! Io mi ritrovo distrutto interiormente. Vedete, in Europa nessuno immagina cosa provi un piccolo iracheno, cosa provi una ragazzina di soli undici anni davanti alla follia! Quanti piccoli hanno devastato quegli idioti con il loro terrore? La capacità di amare di Nasren? la capacità di progettare futuro? La capacità di avere speranza? La capacità di credere in Dio? La ragazzina continua il racconto. Sono ormai le dieci di sera ma nessuno è stanco e il mio traduttore, Jamal, si è appassionato al racconto della piccola. “Dalla Siria, padre, siamo rientrati in Kurdistan. Dalla Siria, dove abbiamo trascorso due mesi al campo profughi di Naurus, siamo arrivati qui a Dawidiya, padre, perché qui abbiamo i nostri parenti”. La ragazzina è stanca e io ho il cervello che mi scoppia ma non possiamo chiudere la nostra chiacchierata in modo così duro. Lancio a lei una delle ultime domande: “Nasren, qual’è stato il momento più bello della tua vita?”. “Il momento più bello, padre, è stato il nostro arrivo al campo profughi, senza più nulla ma con la convinzione di essere al sicuro e di non avere più paura per la nostra vita!”. Chiedo alla ragazzina che interessi abbia oggi e mi dice che le piace tanto la musica e cantare… Quando mi dice così una profonda commozione entra in me. Povera piccola. Se nonostante l’insonnia, l’angoscia, la paura ha ancora voglia di cantare, allora Daesh non è riuscito a toglierle il seme della speranza e se nel cuore della piccola c’è un seme di speranza allora, sono convinto, anche in Iraq quella piccola potrà raccogliere futuro. Sono egoista e formulo alla mia insegnante in questa notte una domanda personale. “Nasren mi puoi dare un consiglio dopo tutto quello che hai vissuto? Cosa devo fare io nella mia vita?”. La piccola con grande semplicità mi risponde: “ Non lasciare mai il tuo lavoro e continua ad aiutare le persone che soffrono e che nessuno conosce… e, mi raccomand, fai conoscere la loro storia come farai conoscere la mia! Voglio da te un regalo: una copia del libro, ci tengo moltissimo!”. Siamo diventati amici. La guardo con profonda dolcezza e grande ammirazione. Ricostruire una vita quando è spappolata dalla paura è un’impresa ardua e piena di sacrificio. “Nasren, anche io chiedo un regalo: prima di dormire questa sera mi puoi dare un disegno tuo?”. La ragazzina mi risponde di sì. “Lo voglio mettere nel mio studio a Roma per ricordarmi di te”. Il papà la invita a fare il disegno e lei, felice, acconsente. Mi abbraccia forte, prende un pezzo di carta e inizia il disegno. Jamal decide di rimanere con noi. Prima di dormire, la piccola mi consegna il suo capolavoro. I terroristi armati sono sopra di lei e la sua mamma con un coltello e un fucile, dietro sventola la bandiera di ISIS. Sul lato destro del disegno, in arabo, appaiono le parole di Nasren: ‘Io confido nel mio Dio! Sono Yazida! Sono Yazida! Sono Yazida! Sono Yazida!”. Abbraccio forte la piccola e nascondo le mie lacrime. Beviamo un tè bollente e mi accuccio nel materassino a me destinato dalla famiglia per la notte. Sono vicino a un rumoroso frigorifero che non mi permette di dormire. Recito il rosario, mi giro e vedo i piccoli dormire… Lei no è sveglia e mi saluta con la mano. Gli occhi sono sbarrati. Ė un’altra persona. Il mio interprete non c’è più. Mi alzo silenziosamente, vado verso di lei e le do un grande bacio in fronte e una carezza sulle guance. Mi accorgo di una lacrima. Gli occhi si distendono e lei mi regala un sorriso. Ritorno al mio giaciglio. Il frigorifero fa rumore, la puzza della latrina che ha tracimato è insopportabile e continua a piovere in questa fredda e nera notte nel campo di Dawidiya. Una grande consolazione nel cuore: questo viaggio mi ha fatto uscire dalla mia comoda stanza con aria condizionata vicino al Calvario e mi ha posto fuori, sotto il Calvario di questa piccola yazida che si chiama Nasren.

KANIWAR E FADEL
Ė giorno al campo profughi di Dawidiya. Mi sciacquo alla canna dell’acqua che fa da fontana, mi riassetto e rifaccio lo zaino. Saluto con un sorriso la gentile famiglia di Nasren davanti a unabollente tazza di tè. Clara, la responsabile del campo profughi mi è venuta a prendere. Dobbiamo incontrare due bambini che hanno un grave problema. Giungiamo così al caravan di Kaniwar. La piccolina ha solo un anno e sei mesi. Sta giocando al sole con un triciclo. In un primo momento sembra normalissima. Ė una famiglia yazida da tre anni a Dawidiya, espulsi da Sinjar, una bella cittadina yazida ancora oggi totalmente in mano agli uomini di Daesh. La famiglia si compone di sei persone e tutte vivono in uno spazio di 2 metri per 8. Vi immaginate il caos in questa famiglia? Non esiste un centimetro libero. Il padre, 28 anni e un lavoro temporaneo come autista per Medici senza Frontiere, così inizia il breve racconto. “La piccolina ha compiuto i sedici mesi e dorme nel suo lettino rimediato nelle vicinanze dei fornelli della cucina. Una pentola d’acqua bollente sul fornello e gli altri bambini giocano nel caravan. Troppo stretto lo spazio per otto persone. Basta uno spintone innocente nel gioco dei piccoli che il pentolone dell’acqua bollente traballa e cade. L’acqua bollente cade sulla piccolina che sta dormendo causando un’ustione profonda, estesa e grave!”. Il padre alta la maglietta della piccola e appare l’orrenda piaga. Me la stringo al cuore e lei mi guarda con due occhi buoni ma provati dalla sofferenza. Clara interviene: “Don Gigi, se ti è possibile, possiamo inserire nel programma di adozione a distanza Kaniwar al posto di Shiranoz che, per fortuna, è tornata alla sua casa?”. Guardo Clara: “Come è possibile dirti di no! Anche se Shiranoz fosse ancora al campo ti avrei detto di sì. Non possiamo abbandonare questa piccolina così devastata dalla sofferenza”. Clara traduce al padre e i suoi occhi si riempiono di gioia… “Padre, mia sorella e mio fratello sono ancora imprigionati da Daesh: prega per loro!”. Do un bacio alla piccola Kaniwar sulle sue vistose piaghe e mi sento migliore: ho baciato la carne di Gesù oggi! Facciamo qualche metro per i viottoli del campo profughi. Clara mi parla delle condizioni precarie in cui vivono i bambini e mi prepara all’incontro con un’altra bimba di nome Fadel. Dovrebbe sostituire Rola che ha lasciato Dawidiya per far ritorno alla sua casa. Clara mi parla di una malattia della pelle che non conosco bene. Si tratta di ittiosi. La parola nel suo significato greco ricorda il pesce, perché questa malattia produce su tutta la pelle squame, come quelle dei pesci. A differenza di Kamiwar la malattia della bambina yazida, che ha sette anni, si vede immediatamente! Anzi colpisce. La piccolina è deturpata dalla malattia. Nata con una pelle apparentemente normale, dopo quattro ore si è rivestita tutta di squame scure. Purtroppo la malattia continua per tutta la vita. Mi spiegano che alla nascita il bambino è racchiuso in una membrana sottile (collodio) che cade dopo 10, 14 giorni, rivelando la pelle coperta di squame. Le squame possono essere piccole e bianche, oppure spesse e scure e di solito colpiscono tutto il corpo, pur essendo più grandi sulle gambe. L’ittiosi lamellare è un disturbo brutto a vedersi e può causare un profondo disagio psicologico nei bambini e negli adulti colpiti. La piccola Fadel, mi corre in contro e io, vincendo una naturale prima repulsione, la prendo n braccio. Non so che cavolo abbia! E se fosse contagiosa? Proprio per questo urlo al mio cuore impaurito: ‘bacia questa piccola…’ Tengo le sue manine e il suo corpicino. La sua pelle non regala una bella impressione. Sembra in alcune parti carta, in altre cellophane. La guardo dritta negli occhi. Ė dolcissima e, vinta la repulsione, la riempio di baci e lei, piccolina, con gioia contraccambia. Pur essendo piccola avverte che la sua pelle produce disagio in me e, quando si accorge che l’ho superato, mi premia regalando tutto il suo affetto. Anche questa famiglia è yazida. Vengono anche loro da Sinjar. Daesh li ha cacciati e, dal 3 agosto 2014, sono esuli dalla loro cittadina. Guardo la piccola: “Faed, non ti lasciamo sola, ti saremo vicini per 3 anni! Rossana dall’Italia ti darà una mano”. Do un sonoro bacio alla piccola. Clara con grande gioia mi guarda e sorride compiaciuta. “Grazie don Gigi. il Signore ti ricompensi per tutto quello che fai per i piccoli del nostro campo profughi”. Abbraccio forte Clara: è una sincera amica e si spende molto per i nostri bambini di Dawidiya. Chiudo l’IPad qui al campo profughi. Oggi non piove. Devo salutare gli amici. Padre Yoshia viene a prendermi per andare dal vescovo e presentarglii il progetto di due pozzi d’acqua per questa povera gente. Voglio con tutto il mio cuore realizzarli! Saranno un piccolo seme di speranza che permetterà di poter raccogliere futuro! Grazie a voi che dall’Italia mi avete seguito fino a qui… Ora queste parole sono scagliate attraverso i social media a voi che in Italia le leggete e spero che esse facciano uscire anche voi dalle vostre comode stanze con aria condizionata, poste vicino al calvario, e possiate rendervi conto che la vita del cristiano è sotto al Calvario!

 

MOSUL
Non sono mai stato sul fronte di una guerra. Vederla, sentirla… di più, ascoltarla! Non è un film, non è un notiziario della TV, ma è reale. Ci sei dentro, la respiri come gli agenti chimici usati da ISIS contro le milizie irachene. Non mi ci ritrovo nei panni dell’inviato di guerra, mi stanno scomodi e non li voglio indossare. Sono un semplice prete che giunge in città per pregare e per condividere… e già! Per il momento qui è già difficile fare solo questo. La città è interamente musulmana, non ci sono cristiani e i cristiani qui non voglio ritornare. Cosa ci fa un prete a Mosul? Due cose: celebra la messa, prega e cerca di condividere, di portare una goccia di speranza come con un bacio a un piccolino musulmano che di questa guerra non ne vuole sapere niente ma c’è coinvolto fino al midollo. In un forte abbraccio dato a un soldato cristiano arrivato durante la messa, oppure in una bottiglietta di acqua data ai ragazzi troppo giovani per essere soldati una guerra assurda. Ma andiamo con ordine. Scrivo da Erbil, il giorno dopo essere tornato da Mosul, con la mente stanca ma con il pregio dei ricordi ancora pieni di vita. Scrivo in modo scorretto, ma voi capite il cuore. Poi correggeremo. Tutti mi avevano sconsigliato di andare a Mosul, ma questa non è una novità dei nostri viaggi: è avvenuto per Garissa, Dadaab e soprattutto per i cartelli del narcotraffico in Messico… Ma qui ancora peggio non solo dall’Italia ma anche dall’Iraq tutti hanno detto non andare… Abuna Yoshia, padre Samir, i peshmerga, tutti hanno sconsigliato. Addirittura in Italia mi dicevano che per avere un contractor dovevi pagare le folli cifre di 10.000 euro. Novelle metropolitane da chi, qui in Iraq, non si muove da Erbil o Duhok e poi lavorando per organizzazioni no profit, porta a casa, a spese dei poveri, 5000 euro al mese più comodi alberghi.  È un giovane cristiano di nome Ivan a portarmi nella guerra. Come per le dodici ore di pista in Kenya con Jimmy e Doreen, macchina grossa e robusta: 4000 di cilindrata per sostenere le dure strade della guerra. Partiamo presto da Erbil. È venerdì 5 maggio. La strada è completamente libera perché oggi è venerdì, il giorno della preghiera musulmana. Arriviamo al primo dei numerosi check point. C’è una  inconsueta fila di camion. Ivan li supera e poi parcheggia la grossa jeep. Sono emozionato, preoccupato e anche lievemente agitato. Tutti sconsigliano. Posso ancora ritornare. Ivan mi chiede il tesserino di riconoscimento, prende il suo, compila un modulo su un foglio rosa e mi dice: “Torno subito, padre, vado a fare la pratica per l’ingresso. Stai tranquillo ma, per ogni evenienza, sappi che qui nel cruscotto c’è una pistola!”. Non mi da il tempo di rispondere… Lo sportellone si chiude con un sonoro tonfo. Sorrido con me stesso: ‘Simpatico questo ragazzo… Una pistola nel cruscotto. Bella battuta! Ci sta in questa terra di guerra’. Apro lo sportellone e il caldo di 38 gradi mi dà uno schiaffo. Scatto foto. Troppo caldo. Rientro e chiudo. Lui non arriva. Il cruscotto è lì che mi sfida. Mi lancia una domanda: ‘Aprimi e vedi se scherza!’ Accolgo la sfida e sbianco. Ė vero! Ha una pistola. La tocco. Ė fredda e nera e, mentre la tocco, il freddo e il nero mi entrano nel sangue attraverso il tatto e la vista. Un’impressione di morte, di tristezza… Poi la reazione! Ma questo Ivan è pazzo oppure, semplicemente, sa dove stiamo andando. Stiamo andando dove si uccide. Avere un’arma per proteggersi? Avere un’arma comunque per sparare. Lui rientra e io faccio finta di niente, di non aver visto la pistola e mi ricompongo in un sorriso accogliente. “Tutto in ordine, padre. Quando hanno visto che tu sei un sacerdote ci hanno subito concesso il permesso”. Partiamo. La strada si fa polverosa. L’auto corre sulla pista e, mentre ci avviciniamo a Mosul, i segni della guerra diventano più evidenti. “Qui, padre, Daesh lungo la strada bruciava petrolio per impedire agli aerei della coalizione di bombardare. Con il fumo provocato era difficile vederli…”. I posti di blocco si susseguono e ci avviciniamo alla città. A 17 km incontriamo il villaggio di Bartella che visiteremo nel pomeriggio. Da quel villaggio vengono cinque bambini cristiani che sono profughi nel Dawidiya. Li abbiamo presi in adozione a distanza per tre anni. Siamo alle periferie della città caotica. Mosul è una città di più di 1.500.000 persone. È la terza città più grande del Paese dopo Baghdad e Bassora. Nel giugno 2014 la città cadde in mano ai miliziani di Daesh che, nelle settimane successive, scacciarono tutti i cristiani della città scesi dai 50000 del 2003 ai 3000 del 2014. Dunque oggi a Mosul non esistono cristiani, non esistono sacerdoti e le chiese sono ridotte a un ammasso di detriti. ‘Cosa vai a fare lì?’, mi interrogo nella strada che mi sta portando nella periferia. Trovo subito una risposta. ‘Vado in pellegrinaggio. Non sono un reporter di guerra, sono un sacerdote! Vado a Mosul per pregare e per consolare, anche solo una persona, ma il valore simbolico della consolazione non è questione di quantità ma di qualità. Vado a Mosul dove ha vissuto Giona, vado a visitare l’antica Ninive’. Perché il nome Mosul, che si lega a immagini di guerra, ha totalmente cancellato dalle nostre teste il ricordo che quella città: è una città della Bibbia di grande significato. Mi spavento. Prego il profeta Gioia e ripenso alle sue parole: ‘Ancora quaranta giorni e Ninive sarà distrutta!’. Quanto sono attuali e profetiche quelle parole del profeta ancora oggi dense di mistero. Venire a Mosul? Perché tutti hanno sconsigliato! Perché? Perché? Perché? La domanda diventa ritmica nel cuore mentre le prime immagini della città si presentano agli occhi. È un grande mercato, Ivan mi dice che questa grande e caotica strada di mercato è stata riaperta da alcuni mesi, dopo la liberazione dall’ISIS. Gente povera, gente indaffarata, venditori di verdura, di frutta, pane, spezie, olio… E soprattutto tanta, ma tanta gente. La grossa macchina nera rallenta. Ivan toglie la pistola e mi spaventa. L’avevo dimenticata. “Cosa fai?” domando Prima di rispondere toglie la sicura e questo ancora di più mi spaventa… “Ora è pronta. Possiamo stare tranquilli!”. ‘Che cavolo di ragionamento è?’ dico a me stesso. Ivan mi precede nella risposta alla mia domanda. “Padre, ti vedo agitato calmati. Ti spiego tutto. Se farai esattamente tutto quello che ti dirò non c’è alcun problema. Perché ho preparato l’arma pronta a sparare? Vedi questa gente? Loro non ti faranno nulla anche se non ti vedono di buon occhio perché sei occidentale. Ma tra di loro, a qualche finestra, potrebbe esserci un cecchino, uno dei militanti dell’ISIS ancora nascosti in città. Molti dicono che ora Daesh ha solo qualche migliaia di aderenti, ma come fai a trovarli tutti in un milione e mezzo di persone? Forse proprio uno è qui e, vedendo la nostra auto di grossa cilindrata, sarebbe felice di sparare un paio di colpi per ammazzare due stronzi infedeli!”. Rimango senza parole. Sto per fare una fotografia. Mi fermo. Forse sto per fare una cazzata. Domando e la risposta conferma che stavo per fare una stupidata! “Non fotografare assolutamente nessuno qui. Sorridi e metti gli occhiali da sole. Andiamo via presto da questo casino”. Fiumi di persone con borse di viveri si affrettano nelle spese, mercanti vendono. Ė venerdì e tra poche ore devono andare alla moschea per pregare e ascoltare il sermone dell’iman. Piano piano la grossa vettura esce dal mercato colorato e caotico. Ivan rimette la sicura alla pistola e la richiude nel cruscotto. Ora, invece, i militari non la devono vedere. Siamo in città, nella parte sinistra della città. Non è così facile muoversi. Tutta la città è suddivisa in zone controllate dall’esercito e per muoversi da un punto all’altro si devono fare i controlli con una liturgia che diventa quasi ritmica in tutti i numerosi controlli della giornata: stop, documenti, identificazione della targa con foglio rosa, apertura del bagagliaio, domanda del motivo della visita e risposta a modo di litania: ‘è un prete ed è venuto per visitare le chiese distrutte’. Sorriso e la barriera si apre. Il Twall rimane libero e si passa nella stretta apertura. La prima chiesa che visitiamo ci sta davanti: bella, grande e con marmi meravigliosi… ma che disastro! Ci avviciniamo. Croce del campanile divelta. Una porta arrugginita si apre. Ivan mette l’arma sotto la camicia, nascosta dietro la schiena e nuovamente mi spavento. Mi calma, mi calmo. Meglio così che senza nessuna protezione. Scendiamo. Un uomo con il volto sorridente e accogliente ci saluta. Ci apre il portone di ferro. Siamo dentro. Ivan prima di continuare richiude la porta con il catenaccio. “Why? – chiedo – perché?”. “Meglio così, padre, siamo più tranquilli”. Salgo le scale sconnesse e visibilmente rovinate. Inizio ad avvertire la furia insensata di Daesh. Mentre avverto la furia di Daesh, la città mi presenta un angelo. Piccoli bambini mi corrono incontro con grandi sorrisoni, incuriositi dal colore bianco della pelle. Si avvicinano. Dimentico di essere in guerra. I bambini, con la loro innocenza, hanno la forza di una bomba atomica! A Dawidiya Refugee Camp come qui annientano, polverizzano la guerra e, con il loro sorriso e la loro innocenza, ti curano dentro. Sollevo il più piccolino alla mia guancia e lui si accoccola comodo comodo e pacioso. Che dolceeee! Mi guarda negli occhi e mi interroga: ‘Cosa c’entro io con la guerra? Perché sono nato qui e non in Italia? Perché sento ogni giorno i bombardamenti, vedo morire gente, ascolto pianto e vedo lacrime?’. Povero piccolo. Lo accarezzo teneramente e anche Ivan si commuove. “Padre hai conquistato questo bimbo”. Me lo tengo in braccio, sul mio cuore, mentre vedo distruzione nella chiesa. Tutti gli arredi sacri sono stati fatti sparire. La chiesa è pulita ma vuota, distrutta e soprattutto nuda… Dopo averle tolto gioielli, quadri, statue, libri di preghiera e arredi sacri, ora la stanno spogliando. Il bel marmo viene staccato con cura e messo in ordine per la vendita. Rimane il cemento armato nudo e crudo, come cruda è l’immagine addolcita solo dal piccolino che tengo in braccio e che mi protegge il cuore. “Padre dobbiamo andare – mi dice Ivan – la giornata è lunga e pesante e abbiamo da fare molte cose”. Lascio al padre il bambino e ritorniamo alla macchina. Donne velate di nero e con il volto coperto percorrono le strade di Mosul. Giungiamo a una caserma che apparteneva all’ISIS. La scritta con bombole spray dice in arabo ‘Stato islamico vietato accesso a tutti’. Dopo la riconquista, le famose Golden Division addestrate dagli americani hanno posto delle croci sopra a dispetto della scritta fanatica. Queste scritte mi danno una grande tristezza. Primo motivo: sono brutte, scritte male con lo spray. Secondo motivo: sono fanatiche! Tutte nere… Ci avviciniamo al centro della città, al così detto Front Line. Qui inizi a capire la guerra. Elicotteri vanno e vengono, esplosioni, colpi d’arma da fuoco e…. Non siamo al cinema, ma al centro di una guerra folle. Se tutte le guerre sono folli questa guerra è super-folle! un casino fotonico solo per capire chi fa guerra a chi. Ho impiegato alcune ore di lettura e studio prima di venire qui per capire lo scenario di guerra e pensavo di avere le idee chiare a riguardo, invece la guerra ti rimescola nuovamente le carte. Provo a confondervi le idee. Ecco gli attori:
Daesh, i membri dello Stato Islamico. Forse questo è chiaro anche se a oggi non è chiaro come poche migliaia di persone venute dalla Siria al comando di un folle di nome Al Baghdadi, che qui a Mosul ha tenuto un solo discorso, si siano impossessate di una città grande un milione e mezzo di abitanti e abbiano conquistato tutta la Piana di Ninive. Incontrando tanta gente per questi villaggi, nessuno ha detto di aver visto Daesh, ma di aver sentito dell’arrivo… Tutti in fuga senza veder il nemico? Purtroppo questa versione fa acqua perché Hazar e Nasren lo hanno visto, eccome! Hazar è stata schiava qui a Mosul in una delle prigioni che visiterò nella giornata, altra pazzia di ISIS! Continuiamo!
Poi il mondo musulmano: si divide in sciiti e sunniti e in Iraq, la patria degli sciiti, a Najaf e poi a Karbala, essi comandano ma devono fare guerra ai sunniti. Qui si apre un mosaico di presenze che diventa un autentico rebus. L’islam sunnita propone e divulga l’ideologia wahabita e salafita (due rami fondamentalisti). Queste due anime sono chiaramente in opposizione all’anima sciita del mondo islamico: dunque non è facile identificare all’interno del mondo musulmano i protagonisti del conflitto a Mosul. Gli stessi musulmani sono, talvolta, in competizione tra di loro e lo jihadismo propone sempre più, a Mosul, la Dawa, una forma feroce di proselitismo. Quando la città sarà liberata dal sedicente Stato Islamico, da quale anima musulmana sarà governata?
– Poi abbiamo i soldati dell’esercito regolare iracheno con la Golden Division, suo fiore all’occhiello.
– Poi abbiamo i peshmerga curdi.
– Ma abbiamo anche gli Yazidi che condividono il potere con il partito PKK del Kurdistan turco. L’esercito iracheno non vede di buon occhio il PKK, partito curdo, in Turchia considerato terrorista, e quindi gli stessi alleati contro Daesh sono in lotta tra di loro.
– Ci sono, infine, gli americani che non possono vedere gli sciiti che richiamano forte la presenza dell’Iran e del Golfo Persico.
Bene! Tutto questo frullato nella città di Mosul viene mescolato e centrifugato e uno non capisce più nulla: di dove si trovi, chi sia il nemico e chi ti può ammazzare da un momento all’altro… Su tutti però sovrasta il terrore misterioso di ISIS che ben assaporerete nelle prossime pagine. Come questo mostro è stato creato? Perché questa furia distruttiva? In città, oltre alle prigioni per le donne yazide vendute come schiave, ho trovato cimiteri cristiani e yaziti profanati, tombe divelte, e…. orrore, cadaveri in decomposizione dissepolti e decapitati! Cosa è questo orrore? Su tutto questo orrore, il rumore delle esplosioni, delle bombe sganciate, delle armi che esplodono seminando morte. Siamo a tre chilometri dal fiume Tigri che divide a metà Mosul. Siamo nella parte sinistra liberata ma non sicura e totalmente militarizzata. Fumo, il rumore delle pale degli elicotteri. Fumo nero è quello delle armi convenzionali mentre il fumo bianco è delle armi chimiche di Daesh.“ Signore abbi pietà di noi peccatori!”. Da lontano, da un’antica pagina della Bibbia mi giunge una voce nel cuore: ‘Ancora quaranta giorni e Ninive sarà distrutta!’.  Gesù perché questa guerra? Perché questa persecuzione contro i cristiani e gli yazidi? Seguitemi nelle prossime pagine e abbiate il coraggio di leggere prendendo tempo. Capirete meglio anche la vostra vita e le divisioni del nostro cuore.

 

MESSA A MOSUL
Ecco finalmente lo scopo vero: celebrare messa lì, in quell’inferno dove tutte le chiese sono state distrutte, dove i cristiani sono stati eliminati o sono stati scacciati. Questo avevo espressamente chiesto a Ivan la vigilia della nostra partenza. In una scrupolosa riunione, in cui non mi aveva detto della pistola e di mille altre cose, avevo detto espressamente che io andavo a Mosul per dire messa, per incontrare il dolore e per seminare un chicco di speranza nel cuore di qualcuno. Ivan conosce perfettamente il mio desiderio e, dopo aver visitato la prima chiesa dedicata allo Spirito Santo, andiamo alla chiesa dedicata a San Giorgio. I militari questa volta, dopo una lunga attesa, non ci danno il permesso. È una zona strategica e non vogliono che alcun estraneo entri in uno dei quartieri generali dell’esercito iracheno. Regaliamo due bottiglie di acqua ai giovani militari al caldo dei 40 gradi e Ivan mi porta a vedere un’altra chiesa. Mentre passiamo i checkpoint ecco una nuova rivelazione. Dopo la pistola sotto la camicia Ivan, in modo gentile e raffinato, mi dice: “Padre devi sapere che quando quel demonio dell’ISIS si è ritirato da questi quartieri, alcune volte, soprattutto in luoghi in cui la gente potrebbe frequentare come mercati, scuole o… chiese, ha lasciato cariche di dinamite e esplosivi nascosti. Basta urtare male una pietra o spingere un muro che salta in aria tutto. La bella chiesa che stiamo per visitare si chiama Alnaser, nella mia lingua! Senti facciamo così: entriamo, guardiamo bene e poi muoviamo i passi. Va bene? Vuoi che vada da solo?”. Non mi aspettavo questa nuova sgradevolissima sorpresa: saltare in aria a Mosul in questo modo… Avevo paura di essere aggredito, di ricevere qualche proiettile di rimbalzo, ma la premeditazione dell’esplosivo dopo che il nemico si è ritirato non me l’aspettavo proprio. Sbianco una seconda volta, ma questa volta reagisco in modo più energico per nascondere falsamente la mia sorpresa. “Senti Ivan, se tu salti in aria all’interno pensi che questa esplosione mi risparmi qui a pochi metri da te? Ascolta, penso che quattro occhi siano meglio di due. Entriamo insieme e scrupolosamente guardiamo ok? Dimmi solo dove devo cercare”. “Nulla. Questi ordigni elementari a uno sguardo solo superficiale non si vedono, ma con occhio attento vedrai qualcosa di strano…”. Entriamo e non sono al massimo dell’allegria. Sono dalla parte sinistra della chiesa. Niente di sospetto: il pavimento è spoglio e liscio, un’enorme lastra di cemento armato. Nessuna bomba può essere qui. Ivan mi dice: “Bene, padre, tu aspetta qui. Faccio un giro attorno per essere sicuro, giro attorno al perimetro della chiesa distrutta. ok? Tu prepara per la Messa. Celebreremo qui”.   Così ha inizio la preparazione di una delle messe più povere, semplici e di grande significato per la mia vita e la mia fede! Con un fazzolettino di carta pulisco l’altare dalla polvere, una lastra di cemento spogliata dal marmo. Pongo sull’altare il mio caro e inseparabile Vangelo aperto e pongo il pane e il vino. Una semplicità ed essenzialità senza confronti. Una riscoperta radicale del valore enorme dell’eucaristia, che non sta in una sontuosa cerimonia con candelabrini, ricchi paramenti e calici preziosissimi ma nel fatto che Gesù diviene pane e vino. Questa cosa mi manda al manicomio. Ma ci pensate? Dio sarà presente qui, tra alcuni istanti, grazie alle parole della consacrazione. Gesù tornerà a Mosul. Forse è la prima messa che si celebra qui dalla liberazione dell’ISIS. Penso questo perché in città non c’è un cristiano e tanto meno un prete. Mi sfiora un brivido. Se ci fosse un cecchino qui sarebbe felicissimo di ammazzarmi mentre celebro la messa! Ammazzare un cristiano ha un grande valore, ma per Daesh ammazzare un prete è cento volte un onore. È il posto più pericoloso della mia vita, anche se mi viene in mente la messa celebrata a Garissa nei mesi seguenti la strage dei 148 giovani studenti da Al Shabaab, mi viene in mente la celebrazione di Natale al carcere di massima sicurezza di Challapalca a 5050 metri abbracciando criminali e con il fucile pronto a sparare delle guardie carcerarie in mia protezione. Ricaccio il brivido che ritorna però prepotente, forse provocato dal rumore di un elicottero che si avvicina e inizia a mitragliare. Il rumore mi spacca la testa ed entra nelle budella. Se ne va. Più lontano sento il rumore del conflitto a fuoco. E Gesù? Verrà qui tra poco… Verrà a visitare questa città e questi uomini in guerra. Sono fiero di aver accompagnato qui Gesù a visitare la città. Penso che lui ci tenesse tantissimo e in questo so di non sbagliare. Portare Gesù in questa guerra… Rischio di insuperbirmi, ma poi capisco che non è merito mio, così pieno di peccati, incoerenze, superficialità ed egoismo. La Chiesa mi ha regalato, più di trenta anni fa, il carattere sacerdotale, quando sono diventato prete il 21 giugno 1986 e da allora nelle mie miserie, quando dico la messa, Dio si fa presente. Non lo dico io, ma lo dice la Chiesa! Questo per me è sufficiente. Prendo forza da queste riflessioni e mi sento rinnovato nella mia identità sacerdotale! Tutto è pronto. Iniziamo la messa e la lettura del Vangelo, come a Garissa, mi sorprende. Io sono il pane di vita… Parla proprio della presenza reale di Gesù nell’eucaristia e forse qui a Mosul Gesù è presente con una gioia immensa, forte e convinta. Io spero che quando morirò lui si ricordi di questa messa… e se facesse finta di non ricordarsi glielo ricorderò io… Sai Gesù io ti ho fatto essere presente a Mosul nella guerra e so che tu eri così felice quel giorno. Lui allora mi guarderà e con il dito mi dirà: “Tu conosci bene i miei gusti. Ė vero. Essere presente nell’eucaristia a Mosul, il 5 maggio 2017, è stato bello per me, perché io non vinco le guerre con la forza e le armi ma con la mia presenza e la mia obbedienza”. Mi diverto a pensare a questo futuro dialogo ed è la voce di Ivan a interrompere il mio pensiero. “Padre, qui non abbiamo molto tempo. Celebra bene la messa con devozione e calma ma cerca di non essere troppo lungo”. Con un sorriso gli pongo la domanda: “Fai con me la comunione?”. Mi risponde orgoglioso di sì! Così inizio il mio solenne pontificale avendo come incenso il fumo delle bombe e come candele le esplosioni attorno. Celebro la messa con devozione e semplicità assoluta. Prego per la città, per i cristiani, per Ivan, per i morti, per coloro che sono feriti o che stanno morendo proprio durante questo nuovo sacrificio di Gesù sulla croce, prego, prego. Prego intensamente con passione, forza, concentrazione è il cuore del mio viaggio e la commozione diventa formidabile quando lentamente dico: “Prendete e mangiate questo è il mio corpo, questo è il mio sangue”. Mi inginocchio e mi fermo in adorazione. “Signore mio e Dio mio”. Lo ripeto a voce alta tre volte nessuno capisce italiano e lo grido anche. La messa continua e arrivo al Padre Nostro. Quando ecco un imprevisto: da lontano arriva qualcuno. Istintivamente mi dico: ‘Devo proteggere questo tesoro prezioso che è la divina eucaristia. Male che vada mangio e bevo subito. Potrei morire con Gesù nel cuore fulminato da questo islamista… allora il mio discorso a Gesù sul fatto di ricordarsi di questo giorno sarebbe pronunciato prima del previsto… Ivan mi dice in inglese “Stai calmo e soprattutto fermo”. Lui si blocca e con voce calma e tranquilla saluta il giovane. Il giovane chiede chi siamo e lui pacatamente risponde: “Siamo due cristiani e stiamo pregando”. Il giovane guarda incuriosito e chiede a Ivan: “Ma state dicendo messa?”. Ivan risponde di sì e il ragazzo con un grande sorriso risponde: “Posso partecipare anche io? Sono cristiano. Sono un soldato dell’esercito iracheno e da molto tempo non ascolto una messa”. Non ho bisogno di dire ‘Scambiamo il segno di pace’. Con una forza incredibile abbraccio il ragazzo che si commuove. Avrà 22 o 23 anni, mandato in guerra e con tanta paura nel cuore. Il mio forte abbraccio lo riempie di gioia e mi dice in curdo… “Abuna, così forte mi ha abbracciato mio padre lo scorso anno. Non sai che forza mi dai”. Non rispondo ma diretto chiedo: “Vuoi fare la comunione?”. Non ho nessuno scrupolo per la sua confessione. Se mi dice di sì io sono felice. Ma che peccati vuoi che faccia un giovane cristiano di 22 anni in questa città islamista? Lui dice subito di sì. Penso al suo coraggio, penso alla sua giovane vita. Lui ha solo 22 anni io ho 56 anni! Quanto è dura e ingiusta la guerra che uccide giovani vite che con passione stanno vivendo gli anni più belli e formidabili dell’esistenza. Mentre lo abbraccio mi viene in mente una frase bellissima di Gesù: ‘Dove due o tre sono riuniti nel mio nome io sono in mezzo a loro!’ Oggi Gesù è presente a Mosul nel Vangelo che ho portato e letto, è presente perché siamo piccola comunità di fede di tre persone, è presente in questo coraggioso giovane che per me è la carne di Gesù ed è soprattutto presente nel pane e nel vino consacrato. Oggi a Mosul c’è presente un nuovo esercito di combattenti nella girandola di presenza in questa guerra… oltre agli uomini di Daesh, oltre all’esercito iracheno, i sunniti e sciiti, oltre ai turchi del PPK, ai peshmerga e agli yazidi, sono presenti tre cristiani con il loro Generale Gesù! Tre persone, tre battezzati di cui uno stupido, stupido prete, tre persone di alcun valore hanno alla loro testa un generale formidabile: Dio stesso! ‘Non abbiate paura… Io ho vinto il mondo’, non con le armi ma con l’Amore e il perdono. Facciamo la comunione tutti e tre. Rimaniamo seduti in preghiera silenziosa. Le canne dell’organo della nostra cattedrale distrutta purtroppo sono le canne dei fucili e delle armi. Sembriamo tre pazzi, ma la vita cristiana non è pazzia per Gesù? Mi alzo. vado verso il ragazzo e mi inginocchio e gli bacio i piedi. Lui si scansa e poi mi abbraccia forte forte! Povero ragazzo, trema dalla paura. Una paura legittima e buona, una paura sacra di perdere la vita. Lo benedico. La Messa è finita e dire di andare in pace nel cuore della guerra sembra una idiozia, ma proprio per questo lo pronuncio ancora con più forza. Sto mettendo via il Vangelo quando Ivan mi porta a una finestra dove, da lontano, si vede una croce. Mi stropiccio gli occhi: non è possibile! Lo dico a Ivan: “ma è una croce?”. Mi risponde: “Si padre, e l’ho portata io sulla cima di quella collina con altri tre amici musulmani. È alta tre metri e larga due, di legno e, ogni volta che vengo a Mosul, quando la guardo mi dà forza e coraggio”. Lo guardo negli occhi. “Che coraggiosa iniziativa! Se ne vuoi portare un’altra in futuro… ti darò una mano! Tu dimmi cosa devo fare come Fondazione Santina per porre qui un piccolo segno”. “Padre, in due mesi la città sarà liberata da Daesh. Allora avremo bisogno di te”. “Noi ci siamo!” rispondo. Dopo aver baciato con passione l’impolverato altare sul quale Gesù è divenuto pane e vino andiamo alla macchina. Proseguiamo il giro verso il centro della città. Una squallida prigione per donne yazidi, altre chiese distrutte saranno i luoghi della nostra via crucis.

LA PRIGIONE DELLE DONNE YAZIDE
Scrivo da Istanbul, dove sono arrivato presto questa mattina con un volo da Erbil nella notte con scalo ad Ankara. Sto tornando in Italia e qui voglio completare la descrizione del mio viaggio a Mosul. Dopo aver celebrato la Messa ci spingiamo verso il centro della città, verso la riva sinistra del fiume Tigri che divide in due Mosul. Dalla parte destra ci giunge il rumore degli spari e della guerra. Arriviamo al grande complesso della parrocchia di Mar Afram. Era una chiesa bellissima. Oggi è presidiata dalla Golden Division. Otteniamo facilmente da loro il permesso di visitarla. All’ingresso, con la solita bomboletta spray, è scritto in arabo: Qui c’è lo Stato Islamico. Gli islamisti di Daesh avevano trasformato la grande parrocchia in uno dei quartieri generali del loro comando, devastandola prima. Entriamo. L’accanimento paranoico con il quale le croci vengono distrutte ha del demoniaco. Le croci delle vetrate, degli altari, sono sistematicamente distrutte. Se non ci si riesce spezzano un braccio per toglierne il disegno. Un piccolo altare alla sinistra dell’altar maggiore finemente lavorato è stato orrendamente danneggiato, le faccine dei santi scalpellate, le croci distrutte… Ma che significa tutto questo? La chiesa è un cumulo di macerie, distruzione insensata e paranoica di tutto: solo per il gusto psichiatrico di distruggere, distruggere, distruggere ciò che è cristiano. Non lontano da noi c’è la grande moschea dalla quale Al Baghadi ha pronunciato il suo celebre discorso proclamando lo Stato Islamico. Oggi è venerdì e la cantilena della preghiera del muezzin lascia il posto ai toni forti di un imam. Non capisco nulla di arabo, ma quanto è distante il tono forte e violento di quel sermone diffuso in città con altoparlante da quello delle omelie nelle messe cristiane. Chiedo a Ivan se possiamo visitare la moschea. Dall’espressione del suo volto capisco di aver fatto un passo falso. “Padre, forse non hai capito che sei a Mosul e che i cristiani non sono tollerati. Se in un mercato affollato o se nella chiesa dove hai celebrato la messa giravo con pistola e giro tuttora pur protetto dalla Golden Division, neppure con un carro armato entrerei in quella piazza e soprattutto oggi, venerdì, giorno di preghiera, giorno in cui gli animi si surriscaldano sentendo le folli prediche di imam fanatici. Stiamo lontani da quel luogo e andiamocene presto anche da qui”. Mi rendo conto che ha perfettamente ragione e che Ivan sa muoversi con destrezza in questa schifosa e confusa guerra a Mosul. Mentre l’imam predica, urla, eccita… Le sue urla mi entrano nel cuore e sono una formidabile provocazione. Questa guerra qui a Mosul, nella Piana di Ninive, ma anche a Gaza, oppure a Garissa e Dadaab in Kenya mi insegnano di uomini farneticanti di religione. Visitando Mosul ricordo vecchi studi e letture sull’islam e ne capisco la strumentalizzazione, qui a contatto con la vita, non sui banchi di scuola o in un freddo studio mnemonico, ma mentre il muezzin urla, sembra addirittura imprecare, eccita… Finché non riusciamo a capire questo non capiamo nulla dell’ISIS. Chi mi spiega cosa sia una strumentalizzazione è proprio l’imam fanatico dell’ISIS che, con le sue urla feroci, mi fa paura e mi fa capire che con uno che urla così in modo violento è difficile parlare. Mentre il folle imam urla la sua predica, continua la nostra pietosa visita a una di quelle chiese che erano state trasformate in roccaforti di Daesh. Devastazione in ogni luogo, detriti, blocchi di cemento. Su una bella colonna della chiesa, in alto, rimane ancora una insegna dell’ISIS, una sua bandiera dal sinistro colore nero. Mi fa rabbrividire. Ė la prima volta che la vedo realmente! Un conto sono i telegiornali, un conto è la realtà. Mentre guardo in alto non mi rendo conto che sto pestando un pezzo di quella bandiera di plastica nera. La raccolgo. Ė un piccolo frammento lungo come un foglio formato A4, ma si capisce benissimo essere una delle insegne divelte dell’ISIS. La piego e me la metto in tasca. La porto a Roma con me e quando parlerò alla gente della guerra a Mosul farò toccare il pezzo di quella insegna per mostrare come questa guerra sia terribilmente reale! Quasi un trofeo di guerra, non una reliquia. Ma se di questo pezzo di bandiera dell’ISIS posso parlare come di un trofeo, tra le macerie della furia di Daesh fatte di pietre, fili elettrici, carta, plastica, mi appaiono dei fogli. Il resto del libro è inghiottito da alcune pietre. A fatica libero il volume e mi appare uno sgualcito volume senza copertina. Ė scritto in arabo. Chiedo a Ivan. “Padre è una Bibbia!”. “Ma si compone anche dei vangeli? Sei sicuro?”.“Sicurissimo Padre, ad esempio questa è una pagina del Vangelo di Giovanni!”. Le parole di Ivan mi convincono, mi commuovo profondamente. Stringo al cuore lo sporco libro e lo bacio, sporcandomi le labbra ma pulendomi il cuore. “Lo voglio portare in Italia, lo regalerò a un caro amico che qui molto ha fatto per i cristiani!”. Ripongo gelosamente la Sacra Bibbia in un sacchetto di plastica. Usciamo dalle rovine della chiesa. I soldati della Golden Division ci conducono ai locali trasformati in prigione dall’ISIS. Una di quelle stanze è stranamente cosparsa di vestiti femminili, solo femminili. Chiedo curiosamente il perché e il soldato ci spiega… “Qui, padre, venivano ammassate le donne che poi venivano destinate alla vendita al mercato centrale di Mosul. È una storia tristemente famosa. Soprattutto donne yazide. In questa stanza non molto ampia stavano circa quaranta donne stipate. Venivano prese, violentate, stuprate e … vendute al mercato. Per tenerle buone le obbligavano a prendere sedativi”. Così facendo il soldato prende da terra un buster di pillole vuote. La scritta è in arabo, non capisco nulla. Mi legge il nome di un potente farmaco tranquillante. Drogavano le donne per poi stuprarle. Mio Dio! Mi ricordo perfettamente della storia della mia Hazar. Mentre l’uomo parla mi ricordo che Hazar, la donna yazida di cui abbiamo parlato in un altro libretto a lei dedicato, era stata venduta come schiava a Mosul e raccontava esattamente queste cose: spazi angusti per la prigionia, sedativi per stuprare donne, vita da capre mi diceva Hazar. Non posso nascondere la commozione ai miei compagni.Mentre l’imam continua a urlare il suo sermone del venerdì e, lontano, si sentono bombe esplodere e artiglieria colpire, inizio il mio discorso. “Ivan, lo scorso anno a Dawidiya Refugee Camp ho incontrato e parlato a lungo con una donna yazida che proprio in questa città era stata venduta come schiava. Vedere una di queste prigioni mi commuove profondamente e mi chiedo: ma dove è finito il rispetto dei diritti umani e della donna? Queste bestie rifiutano, a chi non è soggetto a quello che loro chiamano islam, ogni diritto! Se i bambini crescono con nelle orecchie le urla di questo fanatico imam che incita all’odio, che dice che chi lascia la religione musulmana deve essere punito con la morte, che non bisogna salutare la donna o un infedele… certo che poi abbiamo queste prigioni”. Calpestando detriti, muovendoci tra le pietre arroventate dai 38 gradi, attraversiamo il cortile e riprendiamo la strada dell’uscita. Salutiamo i militari e, dopo essere passati vicino al memoriale di Giona, saliamo una collina dalla quale vediamo il panorama della guerra.

DALL’ALTO DI UNA COLLINA
Sarà non più alta di duecento metri, ma da questa collina il panorama della guerra appare nella sua interezza. Elicotteri che vanno e vengono sul centro storico della città non più lontano di un paio di chilometri, al di là del fiume. Funghi di fumo nero, lampi e fumi bianchi per armi chimiche, artiglieria, bombe, aerei… Rumore e tanto rumore lontano. Mi fermo senza parole. Il panorama della guerra colpisce il cuore. Li dove c’è quel fumo uomini stanno morendo, uccisi da altri uomini. Che assurdità! Non riesco più a ragionare. Ė una giornata che riempie di paura, di choc, di forti emozioni e tutto frulla a duemila nel cervello cotto dal terribile caldo di Mosul. Mi fermo, faccio silenzio, voglio portare via il rumore della guerra. Respiro forte il fumo della guerra. Voglio portare via queste immagini forti e contraddittorie, mi devono rimanere nel cuore come un forte monito a non dimenticare, a far conoscere… Recito un Padre nostro. Ė ormai sera. Passando la scacchiera dei posti di blocco, lentamente lasciamo la città, lasciamo la guerra… Ma il desiderio è quello di non dimenticare per diventare più buoni, per terminare tutte le guerre presenti ogni giorno nel cuore.

 

TRA I SERPENTI DELLA PIANA DI NINIVE
Lo scarponcino sale il cumulo di detriti attorno a una delle tante case distrutte dalla follia del califfato nero. Ė molto caldo e nelle prime ore del pomeriggio il sole picchia forte nella pianura riarsa e secca. Sto visitando le rovine di una di quelle case che i cristiani hanno dovuto lasciare e che la furia folle degli islamisti ha con furore distrutto. Le pietre scivolano sotto i miei piedi e il mio pensiero è totalmente concentrato su quanto è accaduto in quei luoghi nel 2014. Con fatica salgo un paio di metri. Sono pietre, calcinacci, intonaci accumulati fuori da una di queste case. Il tutto dura meno di dieci secondi, il tempo che leggerete le tre righe qui avanti. Una pietra si sposta, un serpente velenosissimo lungo 30 centimetri si sente aggredito e mi attacca. Rapido come un fulmine e con una grande forza della testa mi morde! Urlo per lo spavento, impallidisco, scendo sul marciapiedi con un balzo e mi siedo. Il soldato di scorta non capisce… neanche io capisco più niente. La vista del serpente marrone a chiazze chiare mi ha offuscato la mente, ha spento il ragionamento e ha scatenato la paura per l’imprevisto. Solo dopo due respiri profondi ringrazio Dio. Lo scarponcino grigio con lacci verdi ha impedito che il morso giungesse alla caviglia. Me lo tolgo e mentre me lo sfilo, vedo che il calzettone bianco non è stato toccato e tanto meno la caviglia. Bacio con devozione lo scarponcino e giuro a me stesso che mai più viaggerò senza scarponcini! Mi ha salvato la vita. Il soldato ora capisce, sorride e poi mi dice. “Padre, lascia stare i serpenti, abbiamo già tanti problemi qui con il califatto, non cercarne di nuovi!”. Sono ancora pallido nonostante i 38 gradi e non riesco a rispondere. Il giovane prosegue:“Sai che nel 2013 ci fu una vera e propria invasione qui al nord di serpenti velenosi? In quell’anno morirono circa sessanta persone, poi nel 2014 la situazione è peggiorata perché gli uomini dell’ISIS, distruggendo tutto, creavano luoghi adatti per la vita di serpenti velenosi. Siamo a Qaraqosh, una cittadina a 25 chilometri al sud est di Mosul. Ora è libera da Daesh. Oltre a visitare Mosul, in questo viaggio, ho voluto compiere un pellegrinaggio proprio ai villaggi cristiani oggi completamente deserti per visitare e pregare nelle rovine delle chiese distrutte. Ė stato un pellegrinaggio di tristezza e di riflessione. Un momento di revisione profonda in paesi devastati dai serpenti velenosi di Daesh. Prima di visitare le chiese deserte è bene dire qualche cosa sullo stato pietoso dei villaggi. Qaraqosh, Karamles e Bartella: in tutti i tre villaggi cristiani la stessa distruzione e la stessa cosa. Prima di visitare questi luoghi santi infestati dai serpenti velenosi della follia islamista, ritenevo che le tristemente famose case dalle quali i cristiani erano stati fatti fuggire e contrassegnate dal segno N che nell’alfabeto arabo sta per ‘cristiano’, fossero divenute preda di guerra, abitazioni per gli uomini di Daesh e per la gente musulmana fedele a Al Baghdadi. Invece no! Le case sono in uno stato pietoso. Sulle pareti esterne vi sono frasi farneticanti a fatica cancellate, altre permangono ancora nella loro visibilità. Un po’ovunque si vedono scritte inneggianti allo Stato Islamico volte ad affermare una supremazia che non poteva aver altra energia che la forza bruta. «Lo Stato islamico dell’Iraq e della Siria permane e si espande». Dopo la riconquista ci sono frasi che si contrappongo, scritte dai cristiani del tipo: «Qui dentro c’erano 5 tonnellate di grano che sono state rubate dall’ISIS». Ma il risultato è uno sfacelo immenso: sistema elettrico tagliato, tubature dell’acqua tranciate, vetrate bellissime sfasciate, porte scardinate. Il segno N permane su alcune abitazioni e mette ancora i brividi. Forse in Italia non abbiamo capito cosa sia successo qui. Troppo comodo usare questa N nei profili facebook, oppure in whatsapp, o nei propri siti web, per dichiarare una vicinanza a questi martiri cristiani! Quel segno qui ti mette le lacrime agli occhi, ti mette in gola un magone fortissimo… Vorresti scappare. Chiudi gli occhi per non vedere… e ancora un ammasso di detriti: televisori, elettrodomestici, piatti, posate, vestiti, scatole, valigie, tutto rimestato dalla furia di Daesh. Il primo pensiero è stato il recente terremoto che in centro Italia ha prodotto questi danni poi, invece, nel mio cuore le immagini sono andate alla guerra del 2014 a Gaza dove, nel settembre di quell’anno, con Abuna George camminavo per le strade piene di detriti per le bombe scagliate sulla Striscia e per le terribili lotte intestine tra Hamas e Al Fatha. Poi ancora il pensiero va a Garissa in Kenya, dove il 2 aprile 2015 gli estremisti di Al Shabaab avevano orrendamente ammazzato 148 ragazzi. Visitando Elgon B nell’università, lo stesso squallore: mobili sventrati, segni di proiettili e sangue! Questa è la mia piccola e triste geografia dell’orrore, ricostruita nei miei viaggi di solidarietà. Giungiamo alla Cattedrale di Qaraqosh. Nella cattedrale dell’Immacolata (al-Tahira al-Kubra) di Hamdaniya così oggi infatti si chiama la cittadina che mi piace chiamare con il vecchio nome ottomano di Qaraqosh. La devastazione è formidabile: la statua dell’Immacolata abbattuta, le campane spezzate, la chiesa incendiata e il coro e il cortile usati come poligoni di tiro… bossoli da tutte le parti. Nel cortile i mobili sfasciati buttati dalle finestre, cumuli di cenere dappertutto, tristi ricordi di roghi in cui i serpenti di Daesh hanno bruciato libri sacri e registri parrocchiali. In questa chiesa il senso di disagio è profondo, si respira desolazione! Silenzio. Non c’è nessuno: la città è abbandonata. Lo scarponcino urta ancora contro detriti e colpisce un oggetto metallico. Lo guardo bene e gli occhi mi si riempiono di lacrime. Ė ciò che resta di un crocifisso! Un povero Gesù senza croce, ma con le braccia amputate. Sarà di 25 centimetri. Lo raccolgo, lo pulisco e devotamente lo metto nello zaino. Maged, il cristiano che mi accompagna si commuove. Una mano di una bella statua di pietra è per terra, ha un dito spezzato. La raccolgo devotamente e la pongo nello zaino. Il valore di questi ricordi è nullo, ma il loro potere spirituale è terribile: sono reliquie davanti alle quali pregare con intensità! Mentre recito una bella preghiera al crocifisso, mi vengono in mente le parole di papa Francesco, quando nell’Angelus del 26 dicembre 2016 parlava proprio di questo luogo. Le sue parole mi scuotono fino al più profondo del cuore… diceva papa Francesco alcuni mesi fa: Gesù preannuncia ai discepoli il rifiuto e la persecuzione che incontreranno: «Sarete odiati da tutti a causa del mio nome» (v. 22). Ma perché il mondo perseguita i cristiani? Il mondo odia i cristiani per la stessa ragione per cui ha odiato Gesù, perché Lui ha portato la luce di Dio e il mondo preferisce le tenebre per nascondere le sue opere malvage. Ricordiamo che Gesù stesso, nell’Ultima Cena, pregò il Padre perché ci difendesse dal cattivo spirito mondano. C’è opposizione tra la mentalità del Vangelo e quella mondana. Seguire Gesù vuol dire seguire la sua luce, che si è accesa nella notte di Betlemme, e abbandonare le tenebre del mondo”. Quanto ispirate sono le parole del Santo Padre e come meglio le capisco ora. Le sue parole divengono taglienti quando parla, ricordando Santo Stefano protomartire e facendo riferimento ai nuovi martiri di oggi, proprio a quelli che qui a Qaraqosh hanno sofferto e nella cui chiesa mi trovo. Papa Francesco dice, sempre in quel discorso all’Angelus del 26 dicembre 2017: “Anche oggi la Chiesa, per rendere testimonianza alla luce e alla verità, sperimenta in diversi luoghi dure persecuzioni, fino alla suprema prova del martirio. Quanti nostri fratelli e sorelle nella fede subiscono soprusi, violenze e sono odiati a causa di Gesù! Io vi dico una cosa, i martiri di oggi sono in numero maggiore rispetto a quelli dei primi secoli. Quando noi leggiamo la storia dei primi secoli, qui, a Roma, leggiamo tanta crudeltà con i cristiani; io vi dico: la stessa crudeltà c’è oggi, e in numero maggiore, con i cristiani. Oggi vogliamo pensare a loro che soffrono persecuzione, ed essere vicini a loro con il nostro affetto, la nostra preghiera e anche il nostro pianto. Ieri, giorno di Natale, i cristiani perseguitati nell’Iraq hanno celebrato il Natale nella loro cattedrale distrutta: è un esempio di fedeltà al Vangelo. Nonostante le prove e i pericoli, essi testimoniano con coraggio la loro appartenenza a Cristo e vivono il Vangelo impegnandosi a favore degli ultimi, dei più trascurati, facendo del bene a tutti senza distinzione; testimoniano così la carità nella verità”. Splendido papa Francesco! Che forza ricordare qui le sue parole, proprio nella cattedrale da lui citata a Qaraqosh.Maged, mi dice che dobbiamo andare. Dobbiamo visitare altri due villaggi: Bartella e Karamles e il caldo è opprimente.
La sua macchina super-scassata fa fatica a ripartire. Devo scendere e spingere! Ė tutto il giorno che ci tormenta e Maged le ha escogitate tutte per farla andare. La macchina non parte, sembra che ci siano problemi elettrici. Con una pinza fa un cavallotto e l’auto parte. Dopo un paio di ore si ferma di nuovo. Tenta di riaccenderla e si spezza la chiave… allora prende a martellate il pezzo di accensione finché questa sputa la chiave. Ha la chiave di scorta e con quella parte. Poi rimaniamo in riserva. Una litania di guasti e di imprevisti che in Italia farebbero paura. Qui in Iraq fanno invece sorridere anche se lo scendere della sera qualche preoccupazione me la pone, perché nella mia testa, alla fine, un po’di Italia e di Occidente mi sono rimasti… e forse più di quello che credo!
 Giungiamo così a Bartella, un villaggio a 17 chilometri da Mosul. Questo piccolo paese è per la nostra Associazione molto importante perché da esso vengono i cinque bambini cristiani che abbiamo adottato a distanza nel campo profughi di Dawidiya. Come a Qaraqosh lo sfacelo è grande. Le chiese sono distrutte e all’interno ci sono cumuli di macerie e di pietre. In ogni chiesa che visito mi inginocchio e prego davanti ai resti di una icona o ai pezzi di una statua sacra. Anche da una di queste chiese prendo una reliquia: è la testa in legno di un angelo, probabilmente appartenente a un pulpito in legno bruciato. Questo angelo mi dovrà proteggere nel ritorno verso l’Europa. Dopo aver pregato, usciamo dalla chiesa e sui locali adiacenti, probabilmente quello che rimane della vecchia casa parrocchiale, c’è una scritta che dice: Questa chiesa ora è proprietà dello Stato Islamico. Maged mi spiega. “Don Gigi, quando la Golden Division ha riconquistato Bartella e ha visto queste scritte farneticanti ha voluto abolirle facendo sopra l’orrenda scritta alcune croci con una pittura verde”. Mi affretto a fotografare… poi vedo il barattolo di vernice per terra. Mi avvicino. Il pennello sembra essere incollato nella vernice che è quasi completamente asciutta. Muovo vigorosamente il pennello e lo strato superficiale della pittura secca si spezza e, sotto, la pittura è ancora liquida. Prendo il colore verde e, con devozione, traccio una terza croce sulle scritte di Daesh. Mentre faccio questo gesto, quasi come una liturgia, prego e chiedo a Dio di proteggere questo luogo e, idealmente, lo consacro nuovamente a Lui. Il gesto mi commuove e mi compromette! Come sacerdote io appartengo alla Chiesa e mentre raccomando la Chiesa alla protezione di Dio, raccomando a Lui anche la mia vocazione. Guardo ora il muro mentre mi allontano. Sono contento che a Bartella rimanga anche un mio segno. Sono contento di aver pregato anche con un segno eloquente per questa povera Chiesa martire. Il mio viaggio nella Piana di Ninive si conclude a Karamles. Abbiamo così visitato chiese a Mosul, dove ho celebrato la santa messa, poi Qaraqosh, Bartella e infine Karamles. Queste località appartengono tutte alla Piana di Ninive e sono state sotto il dominio demoniaco di Daesh. Mosul ancora oggi è in mano all’ISIS nella parte destra del fiume Tigri. Da questa terra, che ha bevuto tanto sangue cristiano, porto a casa alcune reliquie: oltre al trofeo di un pezzo di bandiera dell’ISIS, c’è una Bibbia, un crocifisso senza braccia, la mano destra in pietra di una statua sacra, la testa in legno di un angelo appartenente a un pulpito bruciato e una icona della Madonna. Sono tutti oggetti santi e preziosi per il loro potente significato. Proprio in questa terra martoriata ho raccolto la richiesta del vescovo di costruire due pozzi di acqua. Non ho soldi, non so dove prenderli, ma sono sicuro che costruiremo quei pozzi come segno di solidarietà e di vicinanza. Il valore simbolico poi di due pozzi di acqua è formidabile, significa dire ostinatamente che crediamo alla Vita. Riportando acqua, torna la vita e la nostra Fondazione Santina chiede a te che stai leggendo di contribuite a riportare vita in questa arsura!

 

L’ICONA CALPESTATA
 Voglio concludere queste pagine proprio parlando di un’ultima reliquia, quell’icona della Vergine con il Bambino Gesù. Il fatto mi ha messo i brividi e mi si è imposto per la sua forza simbolica. Entriamo a Karamles, in una chiesa dedicata alla Madonna. La chiesa è buia ed è nera dal fumo. Daesh ha bruciato banchi, sedie, libri sacri. L’interno spaventa: buio, pezzi di legno bruciati, cenere, statue spezzate, mani, piedi, volti… scritte del Califfato nero. Una desolazione incredibile e il freddo, la paura e la depressione entrano nel cuore. Un nodo alla gola. Gli occhi si inumidiscono mentre i passi degli scarponcini scricchiolano sulle macerie. Salgo verso l’altare devastato. Il tabernacolo dileggiato da fori di proiettili, la porticina staccata… dietro l’altare, su un cumulo di pietre, vedo quello che resta di un’icona della Madonna. Ė irriconoscibile. Graffiata, calpestata e impastata con calcinacci. Si vede solo un occhio del Bambino Gesù e la sua piccola guancia. Non rimane nulla della povera icona. La provo a liberare dai calcinacci. Il valore è pari a zero perché non è un dipinto, ma sembra piuttosto un poster di cartoncino attaccato a un misero supporto di faesite. Più che il valore dell’icona scopro un grande valore in quei segni di sopruso, di dileggio! Quell’icona è sfigurata da uomini malvagi, quell’icona non si riconosce più! Il volto della Vergine è scomparso sotto le scarpe degli uomini neri di Daesh. L’icona in alcune parti è tagliata. Probabilmente hanno tentato di spezzarla, ma non ci sono riusciti. Abbandonata lì, in uno stato di desolazione. Mi inginocchio e prego con profonda fede un’Ave Maria… Mi sto per allontanare ma non ci riesco. Cerco un panno e trovo i resti di una tovaglia dell’altare. Avvolgo con cura l’icona, quasi per non farle male, quasi a proteggere le sue ferite. La metto in macchina. Maged si commuove e mi dice: “Padre si vede che tu vuoi bene alla Madonna! Hai baciato quel pezzo di legno lurido e sporco. Hai fatto bene a prenderti cura di quella Madonnina!”. Sorrido in silenzio con gli occhi rossi. Ė sera e in un tramonto pieno di sabbia del deserto la macchina sta lasciando la Piana di Ninive, il luogo dove Giona aveva predicato. Giunto a Erbil fotografo l’icona e poi nuovamente la proteggo con quel telo. La metto in valigia. Arrivato a Roma, i giorni seguenti, con grande cura e devozione scarto l’immagine. Con cura cerco di capire in che stato sia l’immagine sotto il fango e i detriti. Vedo che il cartoncino è bene attaccato alla faesite. Vado in giardino e… con il forte getto dell’acqua da una canna lavo con cura estrema la faesite…e il miracolo avviene! Piano piano si stacca il fango secco, i sassolini scivolano via e delle terribili impronte degli scarponi dell’ISIS rimangono solo alcune tracce. Appare Lei una Madonnina bellissima! Un gusto di fine ottocento, ma con due occhi verdi dolcissimi e formidabili. Appare Lei, la Mamma di Gesù, con tutta la sua forza e la sua dolcezza. Lei lo sostiene, Lei lo protegge, e il bambino Gesù è ora una meraviglia, un prodigio. L’immagine è di una dolcezza unica. Scoppio a piangere come un cretino. Mi dovrei vergognare nello scrivere queste righe che rivelano la mia debolezza… ma Lei mi parla: “Hai visto che ci sono? Hai visto quanto sono bella? Hai visto che nonostante gli uomini mi abbiano calpestata, riempita di fango, presa a calci… io ci sono ancora? Sono qui! Mi hanno calpestata, come un giorno mi calpestarono ai piedi della croce. Mentre i soldati crocifiggevano mio figlio Gesù mi ingiuriavano, mi riempivano di oltraggi. Ma io stavo là ai piedi della croce. E oggi ero là nella Piana di Ninive dove nel sangue dei cristiani crocifiggevano nuovamente Gesù!” I colori della povera e umile icona brillano forte all’ormai caldo sole di maggio accesi dai riflessi dell’acqua ancora fresca sull’immagine. Mentre la bella icona si asciuga mi metto a dire il rosario e prometto a me stesso di tenerla con me sempre e di guardarla quando mi calpestano, quando mi sento male, quando nella vita trovo contrarietà. La bella e poverissima icona è ancora più preziosa a motivo della sua povertà. Nella parte superiore rimane ancora un orrendo squarcio… ma quanto è bella da guardare, quanta forza mi dona e quanto coraggio infonde. Da questo viaggio all’inferno sono tornato con il paradiso nel cuore.

 

NASREN- PTSD EVENTI TRAUMATICI E RESILIENZA
DOTT. SCHEDA MEDICA A CURA DI GIUSEPPE MITI PSICHIATRA-PSICOTERAPEUTA
Per meglio comprendere la patologia di Nasren ho chiesto al Dottor Giuseppe Miti, psichiatra e psicoterapeuta di redigere una valutazione del comportamento della quattordicenne sulla base di quanto scritto e frutto delle mie domande a lei, di un’analisi del disegno della ragazza e, infine, di alcuni colloqui tra me e lo psichiatra tesi a verificare alcuni dettagli del racconto. Ecco quanto il Dottore scrive.
Quando un essere umano vive un’esperienza traumatica estrema nella quale ha sperimentato, ha assistito o si è confrontato con eventi che hanno implicato la morte o la minaccia di morte, di ferite o violenze a sé o ad altre persone, è come se il suo cervello non avesse la possibilità di metabolizzare e gestire delle emozioni così intense e devastanti. Questo gli provoca delle reazioni di paura, impotenza e orrore che, quasi fatalmente direi, inducono una sintomatologia che viene diagnosticata come Disturbo Post-Traumatico da Stress. Se questo avviene negli adulti, immaginiamo cosa possa produrre nel cervello e nel cuore di un bambino che ha molte meno capacità e risorse di gestione di esperienze terrificanti.

  • La risposta a questi eventi produce sintomi di intrusività, cioè ricordi intrusivi e involontari, incubi, intenso e prolungato distress psicologico e fisiologico (“da quella notte, nella notte mi sveglio, grido, ho incubi! poi provo angoscia e dolore profondo”), reazioni dissociative (“sono rimasta di pietra, non riuscivo più a muovermi dal terrore… non riuscivo a capire se era un terribile scherzo o meno…Quelle urla nella mia testa esplodevano e facevano il vuoto, creavano il nulla, toglievano il ragionamento”);
  • sintomi di evitamento, cioè sforzi di evitare ricordi dolorosi, pensieri o sensazioni associate all’evento (“Feci finta di niente, ma questa è la cosa peggiore, fare finta di niente davanti al proprio dolore. Bloccarlo, buttarlo giù giù in fondo al cuore e poi chiuderlo a chiave, costruire un muro di cemento armato e poi una barriera di filo spinato per impedire che esca fuori e che risusciti!”);
  • sintomi persistenti di aumentato arousal, cioè di ipervigilanza, allarme, disturbi del sonno e difficoltà a concentrarsi (“da quella notte, don Gigi, provo angoscia e dolore profondo… Ti immagini, padre, la paura e la paura della notte? Il buio nel cuore, nelle gambe, negli occhi”).

 

Questa sintomatologia si può accompagnare a esperienze dissociative come depersonalizzazione e derealizzazione (“si inizia a vivere in due modi diversi: perfettamente calmi all’esterno e profondamente in agitazione all’interno”). Questo disturbo può evolvere verso la cronicizzazione e durare per sempre, in particolare nei bambini, se non si interviene rapidamente o se non vi sono fattori protettivi di supporto sociale che possano mitigare gli effetti del trauma. Se tuttavia è vero che un bambino può essere più fragile di un adulto, è pur vero che proprio i bambini hanno una capacità di resilienza a volte straordinaria, la capacità cioè di piegarsi e non spezzarsi, di far fronte in maniera positiva a eventi traumatici, di riorganizzare positivamente la propria vita dinanzi alle difficoltà, di ricostruirsi restando sensibili alle opportunità positive che la vita offre, senza alienare la propria identità. Se a questo gli si aggiunge la possibilità di fruire di interventi terapeutici e di altri fattori protettivi, possiamo pensare che l’evoluzione possa andare verso il superamento del disturbo: fattori protettivi possono essere il coraggio, l’integrità psicologica, la tolleranza allo stress, la creatività, la propensione a sognare ciò che infonde speranza (“La piccola mentre parla mi mostra un carattere forte, una tempra d’acciaio… mi dice che le piace tanto la musica e cantare”), una filosofia di vita costruttiva e capacità di apprendere dall’esperienza (“Non lasciare mai il tuo lavoro e continua ad aiutare le persone che soffrono e che nessuno conosce… E mi raccomando: fai conoscere la loro storia come farai conoscere la mia!”), un ambiente e delle relazioni di supporto sociale e sicurezza (“il momento più bello, padre, è stato il nostro arrivo al campo profughi senza più nulla, ma con la convinzione di essere al sicuro e di non avere più paura per la nostra vita!”). La possibilità di condividere e raccontare gli eventi è assolutamente necessario e indispensabile in questi casi (“È la prima volta che puoi parlare con altri di quanto hai vissuto”), nonostante il timore di far provare ulteriore dolore (“non gli ha fatto bene ricordare queste cose!”).Per finire, con i bambini è spesso utile e rappresenta un vero e proprio intervento terapeutico ricorrere all’utilizzo del disegno per esprimere sia le reazioni al trauma che la propria capacità di uscirne, ed è proprio nel disegno di Nasren che possiamo assistere a entrambi questi aspetti, la descrizione dell’orrore e la genesi del suo superamento, con la formidabile sottolineatura della propria identità e della fiducia in un mondo migliore e più protettivo.

Dott. Giuseppe Miti
Psichiatra-Psicoterapeuta
Dirigente medico ASL RM3
Responsabile dell’Ambulatorio di psicoterapia breve per
il Disturbo Post-Traumatico da Stress presso l’Ospedale San Camillo
ROMA

 

 

GLI AUGURI DI BERGAMO: GIULIA PESENTI

Carissimi amici,
Vi scrivo da migliaia di chilometri di distanza, ma mi sento vicina col cuore e con la stessa fede in Gesù . Ho seguito e ho cercato di tenermi informata  sin dai primi momenti di quanto vi stava succedendo. È proprio in seguito al forte e quasi disperato desiderio di poter far qualcosa per dare una mano nella vostra faticosissima e tormentata situazione, che ho contattato don Gigi, parlandogli della mia volontà di dare una mano ai cristiani che scappavano nel nord dell’Iraq.
Ci siamo trovati, don Gigi si è subito attivato e questa casa è il risultato concreto di questa ‘Unione di intenti’. So che è solo ora una goccia nel mare delle vostre necessità, ma vuole essere il segno che qui in Italia, a Bergamo, non ci dimentichiamo di voi! Un grazie davvero enorme a don Gigi che ha speso energie e fatica , che ha messo tutto se stesso per poter realizzare questo! Vi penso e vi ricordo nella preghiera, ricordatevi anche voi di me!
Con affetto
Giulia

GLI AUGURI DI ROMA: CINZIA MAZZANTI

Carissimi
Essere cristiani in una terra così ostile è veramente difficile. Ogni tanto penso se anche io, in mezzo a tante difficoltà, avrei la forza di non rinnegare il mio amato Gesù. Ma è proprio nell’estrema difficoltà che Gesù ci dà la forza di un leone!
Ho sempre provato una gran pena, ma anche comprensione e tenerezza, per il povero Pietro che in un momento di debolezza e paura rinnegò Gesù. Considero voi dei veri eroi che rimanete fedeli a Gesù nonostante tutto.
Quando Don Gigi mi ha detto che voleva costruire queste aule per darvi un poco di conforto e protezione è stato per me un piacere potere partecipare a questa opera. Grazie del vostro esempio che date a tutto il mondo. Forza e coraggio:
Gesù è con voi. Cinzia

 

PROGRAMMA 22MO VIAGGIO DI SOLIDARIETÀ’
AMICI DI SANTINA ZUCCHINELLI ONLUS
IRAQ 29 aprile – 7 maggio 2017
Programma indicativo

GIORNO MATTINO POMERIGGIO
Sabato
29 Aprile
Ore 7.00 Celebrazione Santa Messa  ed inizio del 22mo viaggio di solidarietà Ore 14.45 PC 1224 Roma – Instanbul S.Gokcen arrivo  ore 18.40Ore 22.00 PC 1702 Instanbul – Ankara arrivo ore 23.15 
Domenica
30 Aprile
Ore 23.55 PC 1702
Ankara – ERBIL
Arrivo 1.45Trasferimento ad ad ANKAWA in Albergo Karlovy Vary Hotel +964.7706388232
– pranzo  
Ore 13.00 partenza per DUHOK, passando per piana di Ninive a 18km da Mosul
ore 18,00 arrivo a MANGESH e riposo e S. Messa
Lunedì
1 Maggio
Ore 7,00 Santa Messa partenza per Araden ed inaugurazione delle 3 aule del catechismo. Festa del villaggio Dawdia visita al Campo Profughi ed accordo per la notte ed incontro con Nasren PTSD notte ad Araden
Martedì
2 Maggio
ARADEN: riordinando appunti e preparando visita di due giorni al campo profughi. Santa Messa ad Araden Partenza per campo profughi di DAWUDIA Visita ed incontro con Nasren .e pernottamento a Dawudia in casa di Samir
Mercoledì
3 Maggio
DAWDIA ORE 7-12 Incontro con Clara e valutazione di due bambini da inserire nel progetto di adozione a distanza per malattie alla pelle gravi. Santa Messa MANGESH visita con le autorità locali al terreno della parrocchia dove costruiremo 2 pozzi di acqua. Riunione logistica ed organizzativa
Giovedì
4 maggio
Santa Messa e partenza per DUHOK, incontro con il Vescovo e firma degli accordi per la costruzione di due pozzi di acqua. Fine mattina partenza per Qaraqosh Arrivo a QARAQOSH  pranzo e visita delle chiese distrutte da Daesh, incontro con i responsabili della sicurezza e dell’esercito iracheno. Partenza per ERBIL
Venerdì

5 maggio

Ore 7,30 Partenza per MOSUL. Ingresso alla città in guerra, visione del fiume TIGRI, il vecchio Quartier Generale di ISIS, visita a chiese distrutte,santa messa nella chiesa di ALNASER. Prigione delle donne yazide, memoriale di Giona Nel  pomeriggio continua la visita di MOUSL militarizzata e di venerdì giorno sacro alla preghiera musulmana e particolarmente pericoloso. In serata visita di BARTELLA e di KARAMLES due villaggi depredati dall’ISIS e partenza per ERBIL
Sabato
6 Maggio
ERBIL riordino appunti ed incontro con famiglie cristiane profughe da Qaraqosh. Celebrazione della Santa Messa Continuano gli iincontri e visita della Cattedrale.  Cena e pernottamento al Karlovy Vary Hotel +964.7706388232
Domenica
7 maggio
Ore 00,30 Sveglia e partenza
per aeroporto di Erbil
Ore 3.05 PC 1703
Erbil – Ankara
Arrivo ore 5.05
Ore 5.40 PC 1703
Ankara – Instabul S. Gokcen
Arrivo 6.45  
Ore 11.45 PC 1223
Instanbul – Roma
Arrivo 13.45Ore 17.00 CELEBRAZIONE EUCARISTICA E CONCLUSIONE DEL 22MO VIAGGIO DI SOLIDARIETÀ