Gerusalemme

FAHMI: QUATTORDICI DICEMBRE DUEMILASEDICI


 

 FAHMI 
Un ragazzo vittima innocente di una pioggia di proiettili a Gerusalemme
Gerusalemme 13-15 gennaio 2017
Domenica 22 Gennaio 2017

Una vecchia riflessione per il Natale 2016
La Via dolorosa ancora torna a colorarsi di sangue, a bagnarsi di sangue! Ma quanto sangue ha bevuto quella assetata Via Dolorosa? Da quello di Gesù ad oggi quello spiazzo davanti a casa non smette di bere avidamente sangue e mischia follemente sangue innocente come quello di colpevoli, colui che viene ferito e chi ferisce. La morte e  il sangue non sembra fare distinzione tra giusti ed ingiusti, tra assassini e vittime! Ho ancora in testa le vittime della violenza dello Stato di Guerrero in Messico, sto preparandomi per partire per le Ande del Perù verso le carceri terribili di Challapalca a 5050 metri e questo mio viaggio inizia bagnandosi del sangue di un ragazzo innocente, che molte volte serviva caffè nel bar sotto casa e che questa estate per il matrimonio di Cristina e Pierandrea ci ha aiutato a preparare la festa portando sedie e tavolini.

Quando un bambino ti gira per casa, quando scherzi con Lui, questo innocente non è più sconosciuto, ma è un volto che conosci, mani che hai toccato, lo hai abbracciato e salutato prima di partire da Gerusalemme… “Ciao Fhami, ci vediamo presto!” Saluta tu madre, la sorella di Yassin.  Siamo a Natale e oggi un ragazzino è in ospedale con la testa spaccata da un idiota proiettile impazzito, il suo sangue è rimasto li sulla piazza, vicino al terribile cacciavite fotografato dai giornalisti assetati di notizie e di dettagli. Ricostruiscono al secondo le dinamiche dell’attentato, ma non ricostruiscono al secondo le folli dinamiche interiori che l’attentato produce e che con questo pezzo vogliamo gridare al mondo. A Natale si parla di una madre, e in questo Natale in partenza per il Perù come posso dimenticare la madre di Fahmi: nel momento dell’attentato, spettatore inconsapevole e incosciente ha gli stessi occhi bagnati di lacrime di Gaby in Messico, di Hazar in Vietnam, o di Akoth a Garissa quando il 4 aprile 2015 sente al telefono l’ultima volta la voce della figlia Lydia prima che un folle islamista di Al Shabab gli spappoli la testa con un colpo di Kalashnikov ( cfr. p.56 di Opere di Luce Marna 2015). Mamme e sangue… Questo è Natale oggi a Gerusalemme, in Messico, in Iraq ed a Garissa, ma lo è anche anche a Juliaca in Perù dove Jenni Angela nella cattedrale davanti alla Statua del Signore di Giustizia mi svela il suo volto pieno di lacrime per la figlia massacrata e gettata in un fiume dalla gelosia di una compagna di scuola a soli 14 anni Bambini e sangue… questo è dunque il Natale oggi a Gerusalemme, Messico, Iraq, Garissa e Perù; ma la litania potrebbe continuare con Gaza, Brasile o Vietnam! E noi invece in modo ridicolo costruiamo una magia di merda del natale fatto di panettoni, alberi di natale con palle colorati e scintillanti. E con dolcezza postiamo in Face Book… faccio di tutto per rendere il Natale ai miei cari dolce e spensierato… frasi cretine più o meno dette così! Che schifo e che idioti: ma natale è una cosa diversa! Natale sono quelle mamme e quei bambini. Partiamo per il Perù con l’idea di scoprire le nostre prigionie per aprirci alla libertà di Gesù: andremo in carcere da vomito a 5050 metri inaugureremo un piccolo asilo, ma quanto vorrei potervi raccontare la storia di un bimbo di soli sei anni che fa mattoni con le manine di 6 anni defomate dall’altrite e che mi grida: “Padre estoy muriendo!” Ma a Natale non nasce un bimbo che per noi è speranza? Si è vero: nasce! Ma nasce vicino a quel piccolo sfruttato e trattato come una bestia, nasce lontano dai panettoni e vicino al sangue del piccolo Fahmi. Nasce lì, sulla via dolorosa, tra la terza e la quarta stazione, in una pozza di sangue versato oggi e vicino ad un cacciavite abbandonato da un folle aggressore che muore tra rantoli in un’altra pozza di sangue a pochi metri dal sangue di Fhami A Natale, proprio il giorno di Natale, rileggi questo pezzo e non mangiare il panettone ma bagnati le mani di sangue, nel tentativo di curare qualcuno che proprio il giorno di Natale versa sangue perché non ha lavoro, perché è malato terminale o perché è in un carcere di infero a 5050 metri: noi saremo proprio lì con Kelvin. Non posso inviare da quel posto disperato nulla e allora i miei auguri te li faccio ora: Buon Natale pensando al sangue di Fhami e a questi carcerati con i quali celebreremo la messa, senza albero di natale, senza idiota panettone e con un sbobba di fagioli ammuffiti in un brodo che sembra scolo di lavandino: questo sarà il nostro cenone di Natale. Vuoi venire… ti aspetto abbiamo ancora un posto libero: il tuo che hai letto fino a qui, e facendo così hai fatto una cosa bella. Ti attendiamo il volo parte sabato mattina, fai la valigia a parti per scoprire quale sia la tua prigione ed aprirti alla libertà.

Il terrore ed il sangue nella piazzetta sotto casa nella Città Vecchia di Gerusalemme
Prima di parlare con pertinenza della piazzetta sotto casa è opportuno collocare tali cruenti fatti di sangue in un contesto attuale di pericolo e sofferenza in cui vive la Terra di Gesù. La Terra santa è ancora segnata dalle violenze. Un palestinese è stato ucciso nelle scorse settimane nel corso di scontri con soldati israeliani a sud di Betlemme, in Cisgiordania. Residenti del villaggio di Tuqu, teatro degli incidenti, riferiscono che la vittima era un ragazzo di 17 anni e si chiamava Qusai Al Amour. Sarebbe stato colpito al torace durante uno «scontro violento». Ci sarebbe stata — stando alle ricostruzioni — una fitta sassaiola contro i soldati israeliani, i quali avrebbero risposto aprendo il fuoco. Si contano anche diversi feriti. Si tratta di una nuova fiammata di violenza destinata ad alimentare ulteriormente la tensione tra le parti. Dall’ottobre del 2015 — quando i media collocano l’inizio dell’ondata di aggressioni ad oggi 22 gennaio 2017 — sono stati uccisi 249 palestinesi autori di attacchi. Alle vittime si aggiungono quaranta israeliani, due americani, un giordano, un eritreo e un sudanese. L’ultimo episodio era stato, poche settimane fa, l’attentato con un camion a Gerusalemme nel quale erano stati uccisi quattro soldati. I negoziati diretti tra israeliani e palestinesi sono fermi da circa due anni. L’ultima conferenza internazionale, tenutasi a Parigi pochi giorni fa, non ha saputo far altro che ribadire il sostegno alla soluzione dei due stati. Tuttavia, all’assise erano assenti le delegazioni dei diretti interessati, che in seguito hanno apertamente criticato la dichiarazione finale. Ed ora possiamo parlare della piazzetta. Il suk, che dalla Porta di Damasco conduce al Muro del Pianto, è spesso luogo di scontri furibondi tra palestinesi e israeliani, soprattutto dove il suk si incontra con la Via Dolorosa e si origina una piccola piazzola sulla quale si affacciano l’Ospizio austriaco, un paio di caffè e l’ingresso alla Terza e Quarta Stazione della Via Crucis. Siamo nella città vecchia di Gerusalemme. Dalla bella terrazza di casa si domina la piazza e purtroppo si possono assistere a scene cruente. Solo per citare alcuni recenti fatti, era il 3 ottobre 2015 verso le 11 di sera quando Aharon Bennett, di 21 anni e Nehemia Lavi, di 41, furono uccisi da un ragazzo palestinese Mohannad Hallabi, di soli 19 anni, studente all’univeristà di Al Quds ed originario di Ramallah. Il giovane aveva postato nel suo profilo face book la fotografia di Diaa Talhama studente palestinese della medesima università, ucciso ad Hebron due settimane prima. Con tale fotografia Hallabi aveva commentato che i palestinesi non accettavano gli attacchi israeliani contro le moschee di Gerusalemme e che sarebbe iniziata una terza intifada. Durante gli scontri sulla piazza descritta di fronte a casa, in cui oltre al giovane attentatore palestinese furono uccisi i due ebrei menzionati, anche la moglie di Bennet fu ricoverata in gravi condizioni all’ospedale insieme con il piccolo figlio di due anni, mentre quello di pochi mesi rimase illeso. E così tristemente la piazza si bagnò di sangue. Sempre, nella stessa piazza nella notte del 3 maggio 2016 un ebreo viene accoltellato alla schiena da uno sconosciuto che riesce a dileguarsi lasciando per terra il coltello, l’uomo viene ricoverato al Shaare Zedek Medical Center. Di nuovo il sangue torna a scorrere nella piazza e viene documentato dalle telecamere e dai video diffusi in youtube. La scorsa estate, era il 12 agosto 2016, Pierandrea e Cristina, le cui nozze avrei celebrato il 14 agosto, sempre dalla terrazza di casa assistettero ad una imponente caccia all’uomo in piena regola, con grandi riflettori e schieramento importante di soldati e polizia. Tutto questo per descrivere il triste panorama in cui vogliamo collocare il fatto che ha riguardato il nostro Fahmi nello scorso mese di dicembre. La mia recente visita a Gerusalemme, mi ha permesso di ricostruire in modo più preciso e puntuale la descrizione che avevo scritto in Italia elaborando le informazioni che mi giungevano da Gerusalemme.

Pioggia di proiettili impazziti
Ed ora arriviamo ad un mese fa: era il 14 dicembre 2016. E’ da poco passata l’una dopo mezzogiorno, la giornata è piovigginosa nella Gerusalemme Vecchia. Yassin con il nipotino Fahmi stanno chiacchierando con gli agenti di polizia che normalmente pattugliano la piazzola che congiunge la Via Dolorosa con il suk che sale verso la Porta di Damasco. Sulla sinistra all’angolo venendo dalla strada percorsa da Gesù verso il Calvario sorge la Terza Stazione e poi la chiesetta nella quale Santina è sepolta: Santa Maria dello Spasimo. Yassin, questo vecchio amico musulmano che tante volte mi ha aiutato a portare la carrozzina di mia madre dal piano terra al mio appartamento discorre tranquillamente con i poliziotti amici, dei vecchi musulmani sorseggiamo tranquilli una tazza di te alla menta seduti fuori dai caffè che sorgono ai piedi della piccola moschea dal minareto illuminato di verde. Fahmi è appena uscito da scuola ed è venuto dallo zio per chiedere i 10 shekel necessari per far ritorno a casa, vicino a Ramalla. Tutto sembra calmo e normale. Yassin estrare i soldi dalla tasca per darli al ragazzino quando ecco la tragedia. Sopraggiunge un giovane palestinese che viene da Beit Surik, a nord-ovest di Gerusalemme, il suo nome è Khamad Khadr Ashikh ed ha 21 anni, passano alcuni brevi istanti, il tempo di estrarre un cacciavite e di usarlo contro le guardie nel folle tentativo di ucciderle ferendole alla testa.

Il giovane palestinese spiritato prova una, due tre volte, a quel punto gli agenti iniziano a sparare. Caratteristica di questi fatti di sangue non sono solo i folli gesti dei palestinesi, ma la sproporzionata risposta di fuoco degli israeliani. Lui compie alcuni metri verso l’Hospice austriaco e li viene finito da una scarica di proiettili. I due soldati esplodono otto colpi contro di lui, ma oltre ad essi all’impazzata scaricano i caricatori, più di 20 colpi accaniti, cruenti ed implacabili. Yassin rimane esterefatto e… ecco la tragedia nascosta che i giornali non raccontano….  Il piccolo Fahmi di soli tredici anni viene colpito alla testa da un proiettile di rimbalzo e cade per terra. In un primo momento i dottori dicono che non è nulla e che si può suturare la ferita facilmente, ma… Yassin non ci stà. Si mette a discutere con loro: il musulmano ha ancora nelle braccia i segni di una tortura avvenuta in carcere quando aveva circa sedici anni e scagliava sassi contro l’esercito, durante la prima intifada. Non ha paura di nulla, i suoi occhi sono spiritati. Urla, contesta e finalmente i medici danno attenzione a lui. Un medico dice che il bambino deve essere ricoverato con urgenza in ospedale. L’autombulanza parte verso l’ospedale Hadassa al Monte Scopus, ma da lì viene inviato all’ospedale più attrezzato di Ain Karim. Fahmi, viene operato tre volte, la prima volta per asciugare l’emorragia provocata dalla pallottola che si è impiantata nel cranio, il secondo intervento per rimuovere dalla scatola cranica il pezzo di proiettile, la terza volta per pulire l’osso e predisporlo alla protesi in metallo che chiuderà la ferita e che si svolgerà nelle prossime settimane di gennaio.

Incontro con Fahmi
Sono tornato a Gerusalemme esattamente un mese dopo il tragico fatto per poter incontrare il piccolo Fahmi. Ho viaggiato nel pomeriggio di venerdì 13 gennaio, giorno del mio compleanno e sono arrivato a casa a Gerusalemme nel cuore della notte. E’ sabato mattina, mi incontro con Yassin alla caffetteria e chiedo di raccontarmi quanto è successo. Yassin mi ringrazia per la vicinanza dimostrata nel mese passato quando Fahmi è stato colpito dal proiettile impazzito. Davanti ad una bollente tazza di tè alla menta e due biscotti al sesamo chiedo notizie del ragazzo. “Don gigi, ora Fahmi è uscito dall’ospedale, è molto debole e deve essere attento a vivere una vita molto riguardata: non può correre, non può prendere colpi alla testa. Deve sottoporsi ad un ultimo intervento chirurgico che ricostruirà la scatola cranica nel punto in cui l’osso è stato asportato. Il ragazzo è ancora spaventato, ma sta venendo a scuola!” Depongo la tazza bollente dalle labbra: “Yassin, posso andare a trovarlo a Ramallah? Mi accompagni? Vorrei pensare ad un piccolo programma di sostegno, cento euro al mese fino ad aprile… Vorrei vedere la mamma e la famiglia, stare un po’ di tempo con loro. Oltre che sostare in preghiera sulla tomba di mia madre, vorrei passare un po’ di tempo con lui. Che ne dici? E’ possibile?” Yassin mi guarda negli occhi e mi dice: “Don gigi non vi è nessun bisogno di andare fino a Ramallah perché il ragazzo oggi è in città, è venuto per la scuola. Lo vuoi vedere?” “Certo Yassin, una bella notizia! Allora, se sei libero andiamo subito, poi mi recherò a pregare alla tomba di Santina” Con passo veloce usciamo dall’Esarcato, il suk musulmano è come solito vivace: le donne vendono sedute per terra le spezie, i vecchi fumano narghilè, i pellegrini cristianifanno la via crucis e gli ebrei vanno al muro per la preghiera del sabato. La scuola è vicina al convento della flagellazione. Yassin conosce gli insegnati, sono centinaia i ragazzi che sono nel cortile, ci occorre un po’ di tempo prima di trovare Fahmi. Finalmente, spunta lui! Dalle fotografie in ospedale al ragazzo che mi sta in piedi con un cappellino scuro in testa per proteggere la cicatrice vi è un abisso. Il ragazzo, grazie al cielo sta bene, o almeno così a me sembra. Mi riconosce, corre verso di me e mi abbraccia teneramente. Usciamo dalla scuola. Fahmi non conosce bene l’inglese e io non parlo arabo al di la di alcune semplici parole. Mi occorre l’aiuto di Yassin. Ripercorriamo il suk verso l’esarcato armeno cattolico. Alla piazzetta scattiamo alcune fotografie. Fahmi mi mostra il segno dei proiettili di quella pazza sparatoria. Alcuni di essi si sono conficcati nella porta dell’Hospice austriaco, uno ha perforato una porta di ferro e si vede il foro. Mentre il bambino mi mostra questi danni, inizio a capire quale sia la reale situazione del ragazzo di 13 anni.Nelle nostre comode case qui in Italia, con difficoltà leggiamo le situazioni di guerra e di conflitto. Complice la televisione, o la sala cinematografica, pensiamo che da una ferita fisica causata da un’arma da fuoco o da un’arma da taglio… si guarisca subito, in poche settimane e che la vita scorra tranquilla con una cicatrice nella testa. Insomma tutto come prima. La pellicola del film termina, spegnamo il televisore dopo l’ennesimo film dove feriti riprendono la vita serena e felice accanto ai propri cari e anestetizziamo le cicatrici. La situazione reale di Fahmi è ben diversa! Un proiettile conficcato in testa non è una sofferenza da poco: si urla dal dolore, si piange, tutto il corpo è preso dalla morsa del dolore di una, due, tre e quattro operazioni chirurgiche. I medici dicono che questo quarto ed ultimo intervento sarà particolarmente doloroso. Così mi descrive Yassin con preoccupazione e timore, mentre lui, Fahmi, mi guarda. Il suo sguardo è calmo, ma lontano. E’ fragile il piccolo, è stordito e nel suo cuore leggo la vera malattia che lo rovinerà per tutta la vita: si chiama paura, si chiama terrore. Qui in Medio Oriente recita un proverbio arabo: “Un gatto morso da un serpente ha paura anche della corda”. Il ragazzo di 13 anni è pallido, chiedo a lui di togliere il cappellino e lei è lì inesorabile, lei, la cicatrice sfregia il cranio di Fahmi, le suture chirurgiche mostrano la parte della testa priva di osso. I capelli sono ricresciuti, ma non nella parte dove vi è la cicatrice. Il bambino sembra più piccolo della sua età, il dolore lo ha chiuso in sé. Lo abbraccio forte e poi do un sonoro bacio alla sua cicatrice; il ragazzetto mi guarda con due occhi dolcissimi e pieni di amarezza, mentre mi mostra uno stentato sorriso. Si sente al sicuro nel convento. Siamo ai piedi della scalinata di ingresso alla chiesa dove è sepolta Santina. Guardo Fahmi e la sua paura ed il suo dolore, nuovamente lo stringo forte. E’ così in tutto il mondo: gli occhi del dolore e della paura accomunano il mondo intero. Sono due anni che viaggio nei posti più pericolosi e miseri del mondo e gli occhi della paura sono uguali dappertutto: negli occhi di Fahmi vedo gli occhi di Hazar in Iraq, la donna fatta schiava per quattro mesi dall’ISIS; negli occhi di Fahmi rivedo gli occhi di Gaby davanti al cadavere torturato della figlia nel Messico della violenza e del narcotraffico; negli occhi di Fahmi rivedo gli occhi della mamma di una ragazza uccisa da Al Ashab a Garissa in Kenya. E la litania potrebbe continuare in decine di storie da Gaza, al Vietnam al Brasile!

         Chiedo a Fahmi: “Cosa hai imparato da questa triste esperienza?” Il ragazzetto mi risponde “Ad avere paura quando esco per strada, a non fidarmi di nessuno a scappare via quando vedo un soldato israeliano!” Sono parole di fuoco, parole che fanno male, non lasciano scampo. Chi ha provato nella sua vita il dolore dell’essere ferito o torturato, per sempre avrà un guasto nella sua esistenza. La cicatrice di un proiettile o di un coltello non la guardi come si guarda una ferita accidentale: quella ferita è lì a sorvegliare i tuoi pensieri, ogni volta che accidentalmente la guardi, tu ricordi e quando ricordi soffri e quando soffri ti chiedi il perché e la risposta è il silenzio. La tortura è tutta lì: una persona che non ti vuole bene te lo dice non con le parole, non rubandoti qualcosa, non calunniandoti, no! Lo dice facendoti male: ferendoti! E quando il dolore dei punti suturati ti ricorda la persona che ti ha procurato la ferita tu impazzisci. Il piccolo Fahmi per tutta la sua vita vivrà in compagnia di quella cicatrice, ci potrà convivere, difficilmente abituare, ma mai dimenticare. La ferita di un nemico ti cambia la vita ed apre la porta all’odio per lui, alla vendetta, al provocare a lui quello che lui ha fatto di male a te. E si scatena la lotta tra reprimere questo desiderio e l’accoglierlo e l’attuarlo! La prima strada, quella del reprimerlo ottiene gli effetti contrari: più pensi di non fare mai questo e più guardi la ferita e più il desiderio di far del male, di fargliela pagare aumenta, si gonfia e si rende chiaro un progetto luciferino di male. Una strada diversa è molto più difficile ed eroica e si chiama perdonare. Significa entrare nella propria cicatrice, aprirla e toglierle il veleno che il nemico vi ha messo e suturarla di nuovo. E’ un lavoro in profondità, su se stessi, sulle ragioni più profonde del proprio vivere, sulle prospettive della vita. La cicatrice esige uno scontro con se stessi ed un confronto; ed il confronto è con le cicatrici del Risorto! Se vogliamo risorgere dobbiamo prima avere le cicatrici sul nostro corpo. Guardando Fahmi e la sua cicatrice nel cranio guardo la mia cicatrice sul braccio sinistro e i suoi 20 punti di sutura e mi viene in mente Hu Hi Li la piccola bimba che, a Saigon in Vietnam, le diede tre baci pieni di saliva portando nel mio cuore una grande pace. Spinto da quel ricordo baciai con forza la cicatrice ancora fresca di Fahmi: non so se riuscii a portare pace nel suo cuore pieno di paura come Hu Hi Li lo portò al mio, ma… gli occhi del piccolo si erano riempiti di luce. Lentamente gli diedi una carezza sulla guancia pallida e gli dissi: “Ora vai a scuola, ci vediamo nel pomeriggio!” Fhami scappò via felice, forse la paura almeno per il momento lo aveva lasciato respirare. Forse nel suo cuore per un istante si era affacciata la speranza. La paura può farti prigioniero, la speranza può renderti libero (Dal film Le ali della libertà)