Interventi

RISTRUTTURAZIONE INFERMERIA CARCERE IN MESSICO


Nel carcere di Acapulco un’infermeria «made in Bg»
L’ECO DI BERGAMO, VENERDI’ 19 GENNAIO 2024 PAGINE 1-17
Una festa di colori e canti ha spezzato il vortice di violenza che opprime la città di Acapulco, in Messico. Il taglio del nastro che ha inaugurato la nuova infermeria del carcere di Las Cruces – dedicata a Giovanna e Pietro Beschi, i genitori del Vescovo di Bergamo, monsignor Francesco Beschi – è stato accompagnato dal canto dei prigionieri che intonavano a gran voce «colora il volto di speranza e pensa al futuro con il cuore». «Queste parole, nell’uragano di dolore e morte in cui ci troviamo, sciolgono il mio timore e aprono una speranza», commenta monsignor Luigi Ginami, sacerdote bergamasco che ha istituito la Fondazione Santina Onlus, che realizza progetti di solidarietà nelle zone più povere del mondo. All’inaugurazione ha preso parte anche l’Arcivescovo di Acapulco monsignor Leopoldo González González.

In Messico ogni anno la violenza degli scontri dei cartelli di narcotrafficanti genera più di 40mila vittime. Nel 2017 anche all’interno del carcere di Las Cruces si è verificata una carneficina a causa di uno scontro di due cartelli narcos nel quale 28 persone sono state uccise.

Questo carcere ospita più di 1.400 reclusi, di cui 70 donne e diversi bambini nati al suo interno, ma era sprovvisto di un’infermeria adeguata per curare dignitosamente i detenuti. Grazie alle donazioni effettuate alla Fondazione e al lavoro dei carcerati è stato possibile ristrutturare l’infermeria, in cui diversi ambulatori erano inagibili a causa di muffa ed infiltrazioni, e inaugurare una nuova area medica interamente rinnovata con condutture di acqua ed elettricità ed un sistema di impermeabilizzazione.

L’inaugurazione, prevista per lo scorso novembre, è stata rimandata a causa dell’uragano Otis che ha distrutto l’80% di Acapulco e ha messo ancor più alla prova una popolazione già alle prese con l’efferata violenza degli scontri narcos. «Vengo da nove anni in Messico, ma questo è il viaggio più difficile e pericoloso che abbiamo mai realizzato – commenta monsignor Ginami –. Acapulco appare ferita profondamente, la città è completamente militarizzata, le strade devastate, non vi sono linee elettriche, manca l’acqua e la violenza è crescente.

Per me questa inaugurazione è un momento importante, ma lo è ancora di più in questo contesto di disperazione. Fondazione Santina vuole essere per Acapulco una piccola speranza.

Questa significativa opera, dedicata ai genitori del nostro Vescovo, mi ha riempito di forza e coraggio nel continuare in questa strada, questo viaggio ha un motto che viene da Einstein ed è stato riutilizzato da Steve Jobs: “Solo quelli che sono abbastanza folli da pensare di cambiare il mondo, lo cambiano veramente”. Noi non pensiamo tanto in grande, ma ritengo che possiamo dire così di noi oggi: “Solo coloro che sono abbastanza folli da pensare di cambiare Acapulco, la cambiano veramente!”».
Maria Chiara Sertori

Viene riportato qui il progetto della ristrutturazione di una infermeria nel carcere di Las Cruces nello Stato del Guerrero in Messico. Il carcere conta 1700 prigionieri ed è “sbranato” dalla violenza dei narcos. L’infermeria è dedicata a Giovanna e Pietro Beschi, genitori del Vescovo di Bergamo, S.E. Mons. Francesco Beschi in segno di riconoscenza.
Ecco il video che promuove la ristrutturazione


Nell’ultimo viaggio di solidarietà in Messico il direttore del Carcere aveva formulato alla nostra Fondazione la richiesta di ristrutturazione dell’infermeria ecco la sua lettera in data 21 novembre 2022:

Il Consiglio di Amministrazione di Fondazione Santina approva tale ristrutturazione ed iinvia il seguente bonifico in data 15 settembre 2023, si tratta di euro 5300. Purtroppo i lavori si sono fermati a motivo del terribile uragano che ha investito la costa di Acapulco nei mesi seguenti. I lavori con fatica e gioia ora sono terminati ed il prossimo 16 gennaio si inaugurerà la nuova infermeria alla presenza dell’Arcivescovo di Acapulco S.E. Mons. Leopoldo Gonzales Gonzales.

Nel sopralluogo del settembre 2022 è stato girato un video che nei dettagli ben spiega la ristrutturazione. In alcuni minuti si può vedere il carcere ed anche le parole esplicative del Direttore.

La stampa ha evidenziato bella notizia ed il Corriere della Sera dell’edizione di Bergamo ha dato mesi fa l’annuncio. Riportiamo quell’articolo e la storia di Martin, efferato delinquente che ha cambiato la sua vita nel carcere di Las Cruces.

MARTIN
È notte, verso le 3 del mattino; dalla finestra aperta per il forte caldo sento dei colpi di arma da fuoco, mi affaccio impaurito e vedo per il tempo di 4 o 5 secondi due ragazzetti su di una moto con il casco, uno guida e l’altro spara. Ritiro la testa e spero che non ritornino… dopo 15 minuti arriva la polizia, un rapido giro e se ne va. Nessuno vede e nessuno parla. O meglio tutti vediamo e tutti stiamo zitti! Una parola ti può costare la vita. Tu dici, meno male che c’è la polizia… ma è proprio questo il problema. In questo viaggio ho imparato che c’è qualcosa di peggio dei narcos ed è la polizia corrotta, anzi forse proprio loro sono gli autentici narcos! Di giorno vesti la divisa del buono, del tutore dell’ordine e di notte ti trasformi in efferato delinquente. Forse noi li chiameremmo persone bipolari, ma il termine è troppo raffinato per questa gente che io definirei demonio. Il puro delinquente almeno delinea la sua vita nella zona buia del crimine e fugge la polizia. Questa gente schifosa non fugge dalla polizia perché è la polizia! E così i tutori dell’ordine sono quelli che per primi infrangono l’ordine e i cartelli dei narcos fanno con loro buon investimento: pagano in una sola volta sicario e polizia. Se ci pensi un momento è terribile: non avevo mai conosciuto nei miei viaggi qui e nel resto del mondo una situazione simile, finché nel carcere di Las Cruces incontro Martín: Martín ha una condanna per omicidio di 35 anni. Lui è sicario, raffinato torturatore e polizia insieme, con aggiunta di elementi importanti nel cocktail di veleno della sua vita che si chiamano droga come coca, marjuana e crack.

Martín ha 47 anni e decide di raccontarmi la sua storia: quella schifosa e quella di una redenzione grazie a un grande amore, l’amore di Sara. Martín è chiamato El Camaleon, il Camaleonte: di notte delinquente, di giorno poliziotto; oppure di giorno delinquente e di notte poliziotto. Lo incontro nel reparto chiamato MS, di massima sicurezza. Lo osservo attentamente e vedo sul braccio destro le terribili cicatrici di aghi male infilati, perché l’annebbiamento della droga non ti fa centrare la vena… e subito sotto la cicatrice dell’ago un tatuaggio… eh sì: questo viaggio mi sembra guidato dai tatuaggi, e questo è un tatuaggio rigorosamente fatto in carcere, di rozza fattura. “Martín, ascolta vorrei chiedere il permesso alla direzione del carcere di intervistarti, ma prima di farlo vorrei chiedere a te… sto raccogliendo storie di redenzione e riscatto e la tua mi pare una di queste. Potresti fare del bene raccontando come la tua disgustosa vita si sia trasformata in speranza per molti”. Sorride, il carcerato, e mi dice di sì. Compila la lettera per autorizzazione che affido al direttore. Ieri è arrivata la risposta dalla direzione dello Stato da Chilpancingo. Torno al carcere e con Martín passo due ore, impegnative per la crudezza dei suoi racconti di torturatore e, dall’altro canto, per la storia dolce e commovente di redenzione, nella speranza che anche qui non sia camaleonte.

“Martín, mettiamo una regola alla nostra chiacchierata: tu mi dici la pura verità oppure taci, ma le righe che scrivo devono essere autentiche, va bene?”. L’uomo mi scruta con degli occhi molto vivaci e mi dice lentamente: “Tu non sai cosa mi chiedi, stai per ascoltare l’inferno!”. A questo punto succede una cosa che mi gela il sangue: la guardia carceraria che doveva presidiare e controllare il nostro colloquio ci lascia, lascia la porta aperta e si mette fuori in piedi, ma lontano, in modo da non poter ascoltare nulla. Il delinquente con il suo occhio lo segue con attenzione, per vedere dove si mette, e io ho paura; il prigioniero, invece, si sente invece molto più a suo agio e per questo sono sicuro che la sua storia sarà più veritiera… Martín Torres Rodriguez è nato il 29 marzo 1975 ad Acapulco. Purtroppo sto parlando con una persona con il cervello trapanato dalle droghe e questo si riconosce dai suoi frequenti sbalzi di umore, controllati però sufficientemente grazie a un lungo percorso di riabilitazione e di lavoro su sé stesso.

L’uomo mi guarda, mi studia, senza la guardia si sente più a suo agio e il nostro discorso si mette sul tono cordiale: “Padre, inizio con il dirti che io sono un delinquente dall’età di 13 anni: droga, furti, assalti e rapine; mi ricordo che la pistola era troppo grande per la mia piccola mano e anche troppo pesante: era una calibro 32 con sette colpi. La pistola la prendevo da mio padre che lavorava come guardia penitenziale nel carcere, era il mio eroe, lui mi mostrava con orgoglio la sua pistola e fu lui a insegnarmi a sparare il primo colpo… Frequentavo cattive compagnie, una pandilla di giovani adolescenti come me fuori di testa; insieme fumavamo marjuana e tiravamo coca; poi, per poter continuare a drogarci e per vivere assaltavamo le persone: in media ricavavamo dai 5000 ai 6000 pesos. Continuai così fino ai 15 anni; era un sabato, verso mezzogiorno, e in tre – sempre eravamo in tre – decidiamo di assaltare un pullman della linea urbana. Alla fermata, un mio compagno sale davanti e punta la pistola alla testa dell’autista, un altro sale dalla porta posteriore e io salgo da quella centrale. La pesante pistola nella mia piccola mano, al collo una borsa e inizio a gridare di darmi portafogli, anelli, oggetti preziosi: una, due, tre persone ok; la quarta si ribella e tenta di disarmarmi, prende la pistola dalla parte della canna e io… sparo, sparo due volte e l’uomo – forse aveva una trentina d’anni – cade a terra morto. Saltiamo giù tutti e tre dal pullman e corriamo, corriamo… e riusciamo a far perdere le nostre tracce. Guardo la borsa e conto 3000 pesos, circa 149 euro. La sera nella pistola di mio padre mancavano due colpi e la pistola aveva ancora l’odore inequivocabile dei due colpi esplosi. Mio padre non mi disse nulla, si limitò a rimettere due nuovi proiettili nell’arma!”.

Il racconto di un omicidio da parte dell’assassino è sempre sconvolgente, ma mentre Martín entra in tutti questi dettagli sento ripugnanza per il padre poliziotto: stiamo parlando di un ragazzetto di 15 anni che si droga e di un padre scellerato che senza alcuna domanda rimpiazza i colpi esplosi, forse più attento alla pistola che al proprio figlio… “Martín, cosa hai provato dopo il tuo primo omicidio?”. Il detenuto mi guarda con occhi assenti e poi mi dice: “Ho sentito di aver fatto una cosa grave, che non fai tutti i giorni! Ma questa cosa grave che avevo commesso mi procurava l’ammirazione degli altri e quindi anche una sorta di potere … E così fu per le altre volte: ogni volta che spari e ammazzi ti senti più forte, con più potere e poi se ci metti l’esaltazione della droga, pensi di essere Dio! A 16 anni incontro una ragazza di 20 anni che si chiama Mariana e ci leghiamo in una unione libera dalla quale nasce Maria del Rosario che oggi ha 31 anni; ho anche due nipoti – Leonardo di 12 anni e Santiago di 11. Quando compio 18 anni, mio padre mi raccomanda ed entro a lavorare come guardia carceraria a Las Cruces; in questo carcere ho lavorato dal 18 ai 23 anni, fino al 2002”.

Lo interrompo: “Dunque tu sei stato nella polizia carceraria?”. “Sì, padre, questa è stata per me una autentica scuola di crimine! Qui ho imparato a torturare, perché in quegli anni gli agenti carcerari avevano potere assoluto. Un giorno dei delinquenti uccidono la moglie di un poliziotto del carcere; ne prendono uno e lo portano qui: fu la mia prima tortura. Mi sentivo tutto sudato nel colpirlo, nel fargli male, iniziai a provare gusto nel far soffrire in modo raffinato, colpendo, bastonando e tirando calci in modo preciso…”. Gli occhi dell’uomo si riempiono di una sinistra luce nel raccontare, una luce che mi inquieta. Dentro di me sento il ghiaccio e gli dico: “Non posso credere che in questo carcere hai appreso ‘l’arte di torturare’: come è possibile?”. E lui: “Questo era Las Cruces in quegli anni 2000… oggi le cose sono cambiate”.

Beviamo un bicchiere di acqua ed El Camaleon continua a raccontare la sua orribile storia. “Don Gigi, di giorno venivo a lavorare qui; finito il mio turno dismettevo i panni della guardia carceraria e mi mettevo quelli del delinquente. A 23 anni lascio la polizia carceraria ed entro nel corpo della marina. Guadagnavo di più, anche se ero più legato al lavoro. Don Gigi, pur essendo nella marina continuavo a essere delinquente nel tempo libero o, se vuoi, continuavo a essere delinquente nell’anima e nel ‘tempo libero’ mi trasformavo in poliziotto della marina …”. “…esattamente come un camaleonte!”, lo interrompo: mi sembra che Martín mi conceda un tono confidenziale. “Sì, proprio come il soprannome che ti hanno appioppato… Sì, perché il mondo del crimine ha un sesto senso nel qualificare il criminale vero? Io penso che quello che tu eri, come camaleonte, era il cuore della tua vita perversa e cioè la doppia faccia, la doppia vita… il male, il demonio è maestro nel trasformarsi in angelo di luce… e così tu di giorno eri un angelo di luce come tutore dell’ordine e di notte delinquente. Il nome vero del demonio è Lucifero, perché si presenta sempre come angelo di luce!”.

L’ uomo rimane in silenzio con la testa bassa; quando rialza il capo i suoi occhi sono pieni di lacrime. Respira profondamente, beve un bicchiere di acqua ghiacciata nel caldo di Acapulco e continua la sua triste storia. “A 21 anni, padre, nella mia vita faccio un passo molto dannoso contro me stesso e la mia salute: inizio a bucarmi, di eroina! E la mia testa si perde tra alcool, eroina, cocaina, crack e altro ancora. Non ho più la testa, sono un esaltato, squilibrato e una notte mi ricoverano al pronto soccorso: stavo per morire. Un’esperienza bruttissima che mi ha spaventato e questa terribile esperienza mi getta nel buio più profondo: la mia donna, Mariana, mi lascia, scappa spaventata con i figli. Io rimango solo con il mio dio, che è mio padre, per me un mito, un capo indiscusso, lui mi ha insegnato a essere camaleonte, ed era davvero un bravo camaleonte! Bene, il mio dio, me lo ammazzano! Tu, padre, non puoi capire che succede in me. Ascolta quello che è successo: sono sul punto di morire e ho paura, nello spavento la mia compagna mi lascia e io mi sento solo, sono solo e mi ammazzano dio! Questa terrificante miscela di morte, paura, solitudine, delinquenza, eroina, cocaina e marijuana provocano in me un odio profondo, sconfinato, duro, acido e strutturato che si trasforma in un’intelligenza fredda e calcolatrice. Lascio la marina e ritorno a lavorare come guardia carceraria, guadagno di meno ma sono più libero di svolgere la mia professione di delinquente. Un potente cartello dei narcos mi contatta; sono esperto nell’uccidere e nel torturare e in più sono nella polizia: un ottimo investimento per i potenti cartelli dei narcos. Dai 29 ai 32 anni, quando mi arrestarono, io milito in un cartello potente: mi pagano bene, 7000 pesos la settimana, e in più quando uccidi una persona lo derubi di tutto perché tutto di quel morto ti appartiene…”.

Martín si è infervorato nel raccontare; io mi affaccio, cercando sicurezza in questo racconto dell’inferno perché mi rendo conto che sto ascoltando cose pericolose… la guardia carceraria è sparita in fondo al corridoio dove sta parlando con Dulce. Inghiotto amaro e mi chiedo se sia conveniente continuare. Rientro, bevo tutto di un colpo il bicchiere di acqua gelata e guardo il sorriso ora accogliente del Camaleonte: “Non avrei mai pensato che il dolore potesse generare odio in una persona e strutturarlo in modo così lucido; ma quante persone hai ucciso e quante ne hai torturate?”. Il Camaleonte si fa pensieroso e mi dice: “Don Gigi, in media erano uno o due omicidi la settimana, alcune volte nessuno, altre volte tre. Io ricordo bene, penso forse una trentina di omicidi!”. Inghiotto amaro e gli dico: “Non voglio sapere neppure un nome di queste persone! Non mi interessa…”. Lui mi tranquillizza: “Non avere paura, non voglio farti del male, voglio invece riscattare il male che ho fatto, altrimenti non sarei qui e… non ho voluto la guardia carceraria per proteggerti: di loro e di lui devi avere paura!”.

Come un fulmine a ciel sereno entra in me il pensiero che se in questo carcere circolano droga, prostituzione, alcool è tutta opera delle stesse guardie corrotte sulle quali in questo viaggio ho imparato molto. “Oggi i veri camaleonti qui dentro non siamo noi, ma sono le guardie che portano droga con la quale la gente qui si sballa e contro la quale io oggi lotto con tutte le mie forze! Ma torniamo a noi… se vuoi scendere fino in fondo nel mio inferno devi sapere che ero un ottimo e raffinato torturatore! Scariche elettriche, torture con l’acqua, con una candela accesa sotto i talloni delle vittime… fino a tagliare a pezzi, fino a ridurre a pezzi la persona, usando la sega, lentamente, per tagliare un braccio, per esempio: non con il machete, che con un colpo secco fa soffrire di meno. Prima che morissero straziati dicevo loro: ti ho preparato per incontrare San Pietro!”.Non serve raccontarvi l’inferno nel quale mi sono trovato catapultato: so che oggi vorrei solo dimenticare quello che il Camaleonte mi ha raccontato… ma ecco cosa succede, mentre lui racconta – forse sto diventando vecchio: dallo stomaco mi sale un conato di vomito che non riesco a controllare, inghiotto saliva, ma il conato non si ferma e con prepotenza si fa strada dallo stomaco alla gola e dalla gola alla bocca. Lascio matita e carta e corro nel cesso vicino. Nessuno si accorge che vomito… vomito acqua e niente di più. Respiro forte nella lurida latrina e poi con le lacrime agli occhi rientro con la testa bucata dal racconto assurdo. Rientro e Martín sta versando dell’acqua nel bicchiere. “Ho vomitato!”. “Lo so, lo so!”. In tono imperioso mi dice: “Bevi!”. Trangugio l’acqua, poi respiro una, due, tre volte… respiro lentamente. Sono in piedi, Martín fa per abbracciarmi, con forza lo spingo lontano da me: “Tutto quello che mi hai detto mi fa schifo, Camaleonte! Tu sei una bestia…”. Ma che storia di speranza ci ricavo da ‘sta merda? Non avevo mai fatto un’esperienza tanto schifosa; raccolgo i fogli e sto per uscire, mi affaccio al corridoio e in fondo vedo la guardia-camaleonte che mi osserva in modo minaccioso: forse, alla fine, mi sento più al sicuro rientrando da Martín. Mi viene di abbracciarlo forte, ora, e lui mi abbraccia con una forza che mi toglie il respiro. Beviamo acqua e da questo momento succede l’incanto… “Gigi, ti è passato?”. Il suo parlare è pacato e umano. “È giusto vomitare, tu sei venuto in Messico per vomitare, per vedere l’inferno e provarne paura e ribrezzo, ma solo ora mi puoi capire! Non avevo mai parlato così se non con Sara; lei mi ha tolto dall’inferno e mi ha fatto rinascere. Sì, padre, io ho molti problemi nella testa, per quello che ho fatto; mi sono disintossicato” – mi mostra le cicatrici degli aghi, che rimarranno per sempre – “anche se il mio cervello non tornerà più quello di prima; però ho smesso di essere camaleonte. Dio è ancora distante da me, ma la mia donna, Sara, mi ha cambiato…”. “E chi è Sara?”.

Ho ripreso a scrivere con maggior energia e forza e piano piano la luce torna in me. “Sara è la mia donna. Io sono arrivato in questo carcere perché al centro di aiuto ai tossicodipendenti ho ammazzato uno, e per questo omicidio ho preso 35 anni di condanna. Arrivato qui ero ribelle e le guardie-camaleonte mi punivano con l’isolamento. Finché è arrivata lei. Veniva a trovare il figlio Eduardo che è stato qui per tre anni per motivi di droga. Lei veniva a visitarlo e ci siamo innamorati. Il figlio è uscito, ma lei ha continuato a venire qui a trovarmi; viene una volta la settimana, facciamo sesso, ci confidiamo e in lei ho trovato la luce!”. Mi mostra una foto che ha con sé… Che strana avventura: un delinquente di 47 anni con una donna di 56 che vivono in un carcere una storia d’amore: se fosse vero, ci sarebbe materiale per un film! Ma in queste prigioni tutto è possibile. “Ma come posso credere che la tua storia con Sara sia vera?”. “Gigi, giudica tu concretamente quello che faccio e se vuoi chiedi conferma al direttore del carcere! La Messa nell’area di massima sicurezza l’ho preparata io, portando l’amplificatore, gli oggetti per la Messa; mi occupo delle attività sociali; mi occupo della salute dei miei compagni, se hanno qualche sintomo di Tbc li segnalo all’infermeria, li vado a trovare, porto le medicine… e sono contento quando recuperano la salute. Poi una cosa che mi piace tanto, ma tanto, è aiutare i prigionieri che escono dal carcere: preparo le loro carte e quando se ne vanno sono pieno di gioia e sento anche nostalgia di loro!”.

Ora sì che la storia mi interessa, ora sì che è riscatto, ora sì che si può scrivere e forse addirittura dedicare la copertina! Il clima si distende e il pover’uomo con il cervello tormentato dai postumi della droga rivela il suo cuore: “Ma quello che mi piace di più, quello che mi riesce meglio, è tentare di dissuadere i prigionieri che si drogano! Ti sembrerà impossibile, ma in questo carcere gira la droga per colpa delle guardie-camaleonte. E allora che faccio? Quando vedo uno bucarsi, non dico nulla, gli sorrido – siamo in 1600 in questo carcere… poi, quando lo vedo tranquillo ed è solo, mi avvicino e gli faccio vedere i segni, le cicatrici degli aghi delle siringhe e gli dico: ‘Non farlo! Smetti!’. Il processo è lungo, magari diventiamo amici e così cerco di fare smettere anche loro!”.

Il prigioniero mi guarda ora con occhi sinceri e pieni di serenità… Ora mi trovo a mio agio con lui e gli chiedo: “Dunque, una donna ha saputo cambiarti? Dopo tutto quello che ho sentito? Dopo il vomito che mi hai provocato? Chi mi garantisce che tu sia capace di amare?”. Martín sorride e mi risponde lentamente: “Sara è la cosa più bella che mi sia capitata in tutta la mia vita! Sei padrone di non credere al mio amore per lei, ma valuta quello che ora faccio di bene e che mai e poi mai avrei pensato di poter fare! Lei ha tolto l’odio dal mio cuore”. Poi si fa serio e mi dice: “Se vuoi, ho alcune prove concrete, quasi come una fede nuziale che non posso più togliere.

Vedi, padre, io non ho mai fatto tatuaggi nella mia vita fuori ma quando ho conosciuto lei, ho sentito forte il desiderio di farmi tatuare il suo nome e così nel dal tatuatore interno al carcere ho cominciato a farmi tatuare il suo nome sul braccio destro per coprire un’antica ferita! Leggi qui, padre: I love you forever Sara. Questa scritta in inglese è tatuata vicino al segno dell’infinito a indicare che io la amerò per sempre! Ma poi, non contento ho tatuato il suo nome sulle dita, una lettera per ogni dito della mano destra, la mano con la quale faccio tutto”. Martín chiude a pugno la mano e mi mostra sulle dita la scritta S-A-R-A. E poi proprio vicino al cuore, sul petto c’è a colori un altro tatuaggio: è un cuore con una corona di regina e vicino c’è tatuato per ben due volte: Sarah, una nel cuore stesso e un’altra sotto, a caratteri tanto grandi da poter riconoscere il nome Sarah da lontano!

Guardo con stupore l’uomo che mi decanta il suo grande Amore tatuando il suo nome sul braccio destro, sulla mano destra, sul cuore e domando: “Sono finiti i tuoi tatuaggi?”. Lui sorride e mi dice: “No, padre, l’amore parla tutte le lingue e così sul polpaccio sinistro mi sono tatuato la parola Sara in cinese!”. Con orgoglio me lo fa vedere… Sono passate due ore e Martín continua a parlarmi del suo Amore… Lo ascolto con piacere e poi inizio a parlare: “Il tuo amore per Sara è meraviglioso, ha saputo davvero cambiare la tua vita!”. Mi alzo e con devozione bacio il tatuaggio con il segno dell’infinito… lui arrossisce e gli dico: “Questo nome – Sarah – viene dall’ebraico e significa principessa, ma lei non è la principessa della tua vita, bensì la regina del tuo cuore. Io penso che Sara andrà in paradiso solo per l’opera umana che il suo amore ha provocato nel tuo cuore. Io penso che questi tatuaggi sono altresì segni di Dio e della sua presenza attraverso Sara nella tua vita… in questo carcere ho trovato tanti tatuaggi della Santa Muerte, due prigionieri hanno rinunciato con tanta sofferenza a questo culto demoniaco, ho distrutto in questo carcere due statue della Muerte, ma tu oggi mi mostri invece tatuaggi di vita e Sarah è la vita…”.

Si commuove, ho fatto centro nel suo cuore! “Sai, padre, in questi giorni mi hanno comunicato che se continuo così la mia pena sarà dimezzata: io devo scontare 35 anni, ora ne devo scontare solo 18, ne ho passati molti, qui, e così tra 4 anni spero di uscire per vivere per sempre con Sara”. “Per me la cosa più importante è che tu abbia smesso di essere camaleonte e che oggi tu sia una persona diversa…”.

Chiamo la guardia-camaleonte, usciamo nel cortile e con Martín scattiamo alcune foto e filmiamo 30 secondi per TikTok. Dulce è con me e guarda con curiosità i nostri saluti. Martín a questo punto si toglie dal polso un braccialetto e me lo mette al polso destro dicendomi: “Gigi, grazie di cuore! So che sei qui per ristrutturare una parte dell’infermeria e ti occorrono soldi! Questo portafortuna mi hanno detto che dovrebbe portare soldi a te… Se te li porta, usali per noi che in 1600 necessitiamo di una nuova infermeria, fallo per i miei compagni che hanno la Tbc oppure hanno bisogno di cure per disintossicarsi. Ma il mio augurio vero è un altro e te l’ho scritto nella Bibbia: continua a essere un buon sacerdote che vomita e mai e poi mai un sacerdote-camaleonte! Faresti del male e forse più di quello che fanno le guardie-camaleonte. Ma sono sicuro che in te questo pericolo non esiste: sei venuto a visitarmi, hai vomitato, hai pianto, mi hai respinto con forza e poi mi hai abbracciato, ma soprattutto hai baciato il nome della mia principessa e questo nessuno, ma proprio nessuno lo aveva mai fatto!”.

Ci abbracciamo forte forte… lascio il carcere esausto, disorientato ed impaurito, ma con una gioia così grande che non avrei mai immaginato di provare. Mi tocco la spalla sinistra, sento la presenza della Vergine calpestata sempre con me e in macchina recito con Dulce il rosario, chiedendo a Dio di aiutare Martín e di aiutare noi a non essere mai camaleonti! Nel caldo della sera ci concediamo poi una tequila gelata e facciamo festa pensando a Martín.