Viaggi di Solidarietà

21MO VIAGGIO DI FONDAZIONE SANTINA: KENYA 16-23 FEBBRAIO 2017


CICATRICI D’AMORE
Perseguitati, ma non abbandonati (2 Cor 4,9)
«Per trovare i martiri non è necessario andare alle catacombe o al Colosseo: i martiri sono vivi adesso, in tanti Paesi. I cristiani sono perseguitati per la fede. In alcuni Paesi non possono portare la croce: sono puniti se lo fanno. Oggi, nel secolo XXI, la nostra Chiesa è una Chiesa dei martiri» (Omelia a Santa Marta, 6 aprile 2013).
Nelle pagine di questo libro si scopre tutta la forza delle parole di Papa Francesco, se ne avverte la gravità e il senso, la sofferenza e la speranza, il dolore e la fede, il pianto e l’amore di cui è intrisa. Mentre con gli occhi e il cuore si scorre il testo, sembra di venire avvolti da un sudario che inesorabilmente ti riporta al sepolcro, dove una pesante pietra sigillerà quel luogo di morte. Eppure, mentre procedi, avverti fremiti di vita, rintracci segni di rinascita, bagliori di un’alba che non tarderà. Ne vorrei scegliere alcuni, tra i tanti che ho incrociato durante la lettura di questa testimonianza, che mi sembrano condensare il significato della fede, dell’adesione al Vangelo, della sequela di Gesù, il Signore Risorto, di questi fratelli e sorelle di cui il libro racconta la sofferenza e la gioia di aver scelto la morte e la risurrezione di Cristo come senso ultimo della loro esistenza. Infatti, «un cristiano è colui che, dovunque guarda, scopre dappertutto Cristo e si rallegra in Lui. E questa gioia  trasforma tutti i suoi piani e tutti i suoi programmi umani, tutte le sue decisioni e tutte le sue azioni, e fa di tutta la sua missione il sacramento del ritorno del mondo a Colui che è la via del mondo».

Una pallottola
Cerchiamo segni di vita e capita di venire soffocati dalla polvere e di ritrovarci con la carne lacerata da un proiettile. Sono quei momenti in cui anche l’aria sembra trattenere il respiro e tutto è immobile, come se ci si preparasse all’inevitabile, alla tragedia che potrebbe cancellare un’esistenza. In realtà, in quei momenti siamo nel cuore della testimonianza, intesa come martirio, in cui ci è chiesta la condivisione della passione, della Via Dolorosa, del dramma di tanti nostri fratelli e sorelle che, ancora oggi, muoiono confessando il nome di Gesù, il Signore. Provi l’angoscia della solitudine, sperimenti l’arsura, mentre la gola ti brucia irritata dalla sabbia che ti toglie il respiro, porti nel tuo corpo i segni della brutale violenza e dell’odio che da millenni continuano a seminare morte e a condannare innocenti, a crocifiggerli. In quel momento di abbandono, ti nasce dentro l’adesione del cuore, il tuo “sì” alla partecipazione viva a un dramma che pare travolgerci, ma in realtà è la radice di una vita nuova. Qualcuno ti ridona il respiro, ti fa intravedere un senso al tuo dolore, ti riporta alla vita, perché «un martire è colui per il quale Dio non è un’altra – e l’ultima – possibilità di metter fine al terribile dolore; Dio è la sua stessa vita, e quindi ogni cosa nella sua vita va verso Dio, ascende alla pienezza dell’Amore». In questo orizzonte, si affacciano luminose le espressioni di Papa Francesco, rivolte ai nuovi Cardinali, il 19 novembre 2016: «Nel cuore di Dio non ci sono nemici, Dio ha solo figli. Noi innalziamo muri, costruiamo barriere e classifichiamo le persone. Dio ha figli e non precisamente per toglierseli di torno. L’amore di Dio ha il sapore della fedeltà verso le persone, perché è un amore viscerale, un amore materno/paterno che non le lascia nell’abbandono, anche quando hanno sbagliato. Il Nostro Padre non aspetta ad amare il mondo quando saremo buoni, non aspetta ad amarci quando saremo meno ingiusti o perfetti; ci ama perché ha scelto di amarci, ci ama perché ci ha dato lo statuto di figli. Ci ha amato anche quando eravamo suoi nemici (cfr Rm 5,10). L’amore incondizionato del Padre verso tutti è stato, ed è, vera esigenza di conversione per il nostro povero cuore che tende a giudicare, dividere, opporre e condannare. Sapere che Dio continua ad amare anche chi lo rifiuta è una fonte illimitata di fiducia e stimolo per la missione. Nessuna mano sporca può impedire che Dio ponga in quella mano la Vita che desidera regalarci». A questo amore, ha consegnato la propria vita il Vescovo Joe, quando venne aggredito, gli spararono e, così, ebbe inizio la sua “via crucis” dalla quale è germogliato il perdono per coloro che gli hanno fatto del male.

La strada
Può succedere di smarrire la strada, di perdere l’orientamento, di girare a vuoto, di smarrirsi, come se il territorio che stai attraversando fosse divenuto un labirinto, una trappola mortale. In quei momenti ti rendi conto che se non trovi qualcuno che ti guida, che ti offre delle indicazioni, il tuo diventa un vagare inutile, fino allo sfinimento. La strada, con la tutta la sua valenza ambigua, diventa il simbolo della nostra vita. Quando non sai dove rivolgerti, ti devi fidare: di un viandante, di un pastore, di una donna, di gente che non conosci, che non parla nemmeno la tua lingua, tu sei straniero per loro e loro lo sono per te. Non c’è scelta, sei obbligato a credere che ciò che ti viene detto sia vero, sia utile per ritrovare la via. La memoria ci riporta ai due di Emmaus (cf Lc 24, 13–53) e a quel forestiero che spiega, ricorda, cammina con loro e, nel momento più intenso, in cui un pane spezzato ha reso tutto più chiaro, si sottrae alla loro vista. Ma quell’incontro ha fatto ardere di nuovo il cuore, ha riacceso la speranza. Ora tutto è chiaro, si è ritrovata la strada, la meta da raggiungere è tornata limpida nella mente non più annebbiata dalla paura. La comunità, allora, diviene il luogo in cui raccontare e rivivere, ascoltare e condividere. Tutto questo si ripresenta alla memoria del cuore in terra straniera, in una landa bruciata dal sole, come leggiamo in questo originale “reportage”. Su una strada sconosciuta si incrociano uomini e donne che ti ravvivano il desiderio di cercare, di andare, di uscire, di testimoniare che non siamo soli, neanche quando la presunzione ci fa andare fuori strada, ci impedisce di vedere, di riconoscere, di accogliere. Leggendo il racconto di queste pagine, nelle quali vibra ancora il senso di paura e di sconcerto per aver smarrito la via, si riscopre la bellezza della strada, luogo di incontro e di scontro, di insidia e di verità, di inganno e di fraternità.   

Il martirio
Faccio fatica a continuare a scrivere dopo aver letto l’ultima parte del testo. Vorrei lasciare spazio al silenzio e alle lacrime, all’ascolto e alla tenerezza, al perdono e alla misericordia per meditare e accogliere la testimonianza preziosa di questi martiri. Affiorano alla memoria le affermazioni di Papa Francesco nell’omelia a Santa Marta del 30 gennaio 2017: «I martiri sono quelli che portano avanti la Chiesa; sono quelli che sostengono la Chiesa, che l’hanno sostenuta e la sostengono oggi. E oggi ce ne sono più dei primi secoli. I media non lo dicono perché non fa notizia: tanti cristiani nel mondo oggi sono beati perché perseguitati, insultati, carcerati. Ce ne sono tanti in carcere, soltanto per portare una croce o per confessare Gesù Cristo: questa è la gloria della Chiesa e il nostro sostegno e anche la nostra umiliazione, noi che abbiamo tutto, tutto sembra facile per noi e se ci manca qualcosa ci lamentiamo. Pensiamo a questi fratelli e sorelle che oggi, in numero più grande dei primi secoli, soffrono il martirio».
Provo un senso di gratitudine verso questi fratelli nella fede che pagano con la sofferenza, con le torture, con ogni genere di violenza, perfino con la vita, la loro fedeltà a Cristo e al Vangelo. I loro nomi sono da ricordare come persone care, familiari, che pagano per la nostra libertà, anche se noi non ci pensiamo e, forse con un po’ di superficialità, diamo per acquisito ciò che scontato non è. In questo momento scorrono davanti ai miei occhi i volti degli studenti cristiani massacrati nel campus universitario di Garissa, in Kenya. A questi si aggiungono il volto di Asia Bibi, imprigionata in un carcere pakistano da 2.160 giorni con l’accusa di blasfemia. I volti delle migliaia di cristiani fuggiti da Mosul dopo che le loro case erano state marchiate come abitazioni dei seguaci di Gesù. «A Mosul abbiamo lasciato tutto, ma non abbiamo perso ciò che di più prezioso ci era rimasto: la nostra fede», aveva detto il vescovo Abel Nona, profugo con altri 100mila dalla Piana di Ninive. Così, i fotogrammi di una persecuzione sempre più globalizzata, come sostiene Papa Francesco, si susseguono, mentre ci inchiniamo davanti al sacrificio di tanti fratelli, per i quali anche una pallottola si trasforma in dono, per Amore.
Dario E. Viganò

DOVE ANDIAMO CON FONDAZIONE SANTINA? DADAAB BASE DELL’UNHCR IN KENYA
Per consolare il cuore di chi soffre

Il 21mo Viaggio di solidarietà di Fondazione Santina ONLUS ci porterà a Dadaab. Cosa è Dadaab? Dadaab è di fatto un’enorme campo profughi, una base dell’UNHCR, un campo che circonda le città di Hagadera, Dagahaley e Kambios. L’organizzazione umanitaria CARE è il partner responsabile della gestione del campo per conto dell’UNHCR. Gran parte dell’economia delle tre città è incentrata sui servizi ai residenti dei campi profughi che coprono complessivamente una superficie totale di 50 km² . A partire dal maggio 2015, è diventato di fatto la quarta città più abitata del Kenya, e i suoi cinque campi costituiscono collettivamente l’insediamento di rifugiati più grande del mondo.Dadaab ospita migliaia di persone fuggite dai conflitti presenti in Africa Orientale.

 L’AUGURIO DEL VESCOVO DI GARISSA
Carissimo Monsignore Ginami, Cordiali saluti da Garissa e spero che Lei stia bene. Grazie dell’ultimo e-mail e mi scusa del mio ritardo nel rispenderLa. Ho chiamato Padre Ernesto e  mi ha detto che loro non possono accompagnarvi siccome sara’ di Domenica. Ho parlato al telefono come Padre Hilary per vedere se abbia organizzato qualche cosa al riguardo del vostro viaggio e oggi dopo cena mi ha chiamato e detto che ha parlato con Jimmy e Jimmy si sta’ organizzando. Se c’e’ ancora qualcosa da finalizzare, cerchero’ di essere di aiuto. Benvenuto in Kenia e vi auguro un buon viaggio. Vi attendiamo a Garissa. Salutami il Cardinale Comastri ed anche i vostri amici Emanuele, Caterina e Marzia. Rimaniamo in contatto e chiedo la Sua benedizione.
+Joe Alessandro

UN AUGURIO DI PADRE ERNESTO MISSIONARIO A BURA TANA DIOCESI DI GARISSA
No tienes que pedir perdon o disculparte por nada, lu nico que tu has traido a nosotros es esperanza y certeza de que el mundo hay gente tan buena que solo pienza en los demas y en su bienestar….. es algo que siempre he admirado de ti padre…. y esta vez es estupendo que tendras la compañia de bishop alessandro, el es un gran hombre y amigo, lleno de amor por los demas como tu….. el tiene ya todo organizado para ti y tu peregrinacion a daddab camp, yo estoy orando mucho por ti y seguire orando y rogando a Dios todo en tu viaje salga bien….. de verdad que me gustaria mucho ir contigo a ese viaje, aun me estoy lamentando el no por ir…. te acompañare en espiritu y con  todas mis oraciones…. si tienes un momento para Bura tana, siempre s3ras bienvenido, esta es tu mision  aqui re recordamos, te extrañamos y te amamos mucho. 
Padre Ernesto misionero en Bura Tana

UN GRAVE PROBLEMA: LA SICCITÀ  DISASTRO NAZIONALE
Le Contee più colpite dalla siccità sono 13: Garissa dove andiamo noi settimana prossima, Isiolo, Marsabit, Kilifi, Kwale, Tana River, Lamu, Mandera, Wajir, Samburu, Turkana, West Pokot e Baringo. (L.M) (Agenzia Fides 8/2/2017)
“La siccità va subito dichiarata un disastro nazionale per chiedere aiuti internazionali”: appello dei Vescovi Nairobi (Agenzia Fides) – “Si dichiari subito la siccità un disastro nazionale per richiedere aiuti da parte delle comunità internazionale”. È quanto ha chiesto la Conferenza Episcopale del Kenya (KCCB) attraverso il suo Presidente, Sua Ecc. Mons. Philip Anyolo, Vescovo di Homa Bay. “Sollecitiamo il governo a dichiarare la siccità un disastro nazionale in modo che la comunità internazionale ne prenda atto e si faccia avanti per aiutare i numerosi keniani che stanno soffrendo” ha detto Mons. Anyolo in una conferenza stampa a Nairobi. Secondo la KCCB sono 2,4 milioni i keniani che necessitano di un aiuto urgente. Durante la conferenza Mons. Anyolo era affiancato da Mons. Martin Kivuva Musonde, Arcivescovo di Mombasa, da Mons. Cornelius Korir, Vescovo di Eldoret, da Mons. Anthony Muheria Vescovo di Kitui, da Mons. Joseph Mbatia, Vescovo di Nyahururu. Tutti hanno riferito che dalle diocesi e dalle parrocchie continuano a giungere testimonianze di sofferenze, disperazione e di situazioni di pericoli imminente di vita.“I diversi interventi effettuati dal governo, dalla Croce Rossa e da gruppi filantropici non sono sufficienti visto l’alto numero di famiglie colpite. Siamo alla fame, il disastro incombe” hanno detto i Vescovi, che hanno lanciato un appello alla mobilitazione a tutti i gruppi ecclesiali e sociali.

 

Membri della spedizione Don gigi, Jimmy e Doreen

KENYA. ALTA CORTE ANNULLA CHIUSURA DEL CAMPO PROFUGHI DI DADAAB (RADIOGIORNALE DELLA RADIO VATICANA DEL 09.02.17)
L’Alta Corte del Kenya ha annullato la decisione del governo di chiudere il campo profughi di Dadaab, il più grande del mondo, in cui sono accolte quasi 700 mila persone, in gran parte parte somali. “La decisione del governo di cacciare i rifugiati somali – ha sentenziato l’Alta Corte – è un atto di persecuzione di un gruppo, è illegale, discriminatoria e quindi incostituzionale e viola il diritto internazionale” andando a colpire chi fugge dalla fame, dalla guerra civile e dalle violenze dell’estremismo islamico. Inoltre, il Tribunale ha stabilito che il governo keniano non ha provato che i rifugiati somali possono tornare in patria in sicurezza. Fonti governative di Nairobi sostengono che il campo di Dadaab viene utilizzato dal gruppo terroristico al-Shabab per reclutare nuovi membri e come base per sferrare attacchi in Kenya. Tuttavia, non sono state fornite prove al riguardo. La stragrande maggioranza dei profughi vuole restare.


Il governo del Kenya ha reso noto che farà appello contro la decisione. Al nostro microfono, il commento del direttore di Africa-Express.info, Massimo Alberizzi:
E’ stata l’Alta Corte del Kenya che ha bloccato la chiusura di Dadaab. Quindi c’è la volontà giudiziaria, ma la volontà politica non c’è! Ci sono dei problemi… Sarebbero 260 mila i rifugiati somali che dovrebbero essere rimpatriati e sicuramente si può trovare un minimo di soddisfazione naturalmente su questo, però non è certo che vada a buon fine tutta l’operazione e che quindi il campo rimanga aperto. D’altro canto, questo campo – dove sono stato più volte – è molto, molto pericoloso per il Kenya, perché non riescono a controllare quella massa di somali che continuamente arrivano e che vivono lì. Il campo è praticamente gestito dalle mafie, mafie che controllano tutto il commercio della benzina, del carburante; il commercio del cibo, il commercio perfino delle schede telefoniche. Quindi è abbastanza complicato e questo preoccupa molto le autorità kenyote, perché il Kenya è un nervo scoperto – se vogliamo – e c’è sempre il rischio di attentati, di infiltrazioni, di fondamentalisti islamici verso l’ex colonia inglese e poi verso l’Europa.
Una decisione, quella di chiudere il campo e di rimpatriare i rifugiati somali, che è stata rinviata più volte….
Sì, il campo è aperto dal 1991…. La decisione, sì, è stata rinviata più volte perché dal punto di vista umanitario è francamente una cosa odiosa rimpatriare della gente che va via dalla guerra, dalla fame, dai disagi che questo comporta… D’altro canto, però, ci sono i problemi di sicurezza del Kenya e riuscire a coniugare le due cose è abbastanza difficile e trovare una soluzione che rispetti i diritti umani e quindi rispetti anche la sicurezza del Kenya è complicato.
A difesa di queste persone, oltre l’Onu e in questo caso la magistratura, chi c’è?
Non c’è nessuno! Ci sono le organizzazioni non governative che, ovviamente ci tengono al rispetto dei diritti umani e quindi lottano perché resti aperto, ma non c’è un piano strategico che permetta di trovare la soluzione per i due problemi, appunto quello umanitario e quello della sicurezza. Si potrebbe smembrare il campo, ma sono già 3-4 e sono vicinissimi: il campo di Dadaab è composto da un campo solo. Risulta di fatto un campo solo a distanza di 4-5 chilometri uno dall’altro. Pensare ad una soluzione non di rimpatrio, ma di tutela della loro incolumità smembrandolo in vari campi, tenendoli così maggiormente sotto controllo. Questo, però, ha un costo ovviamente.
L’Africa – e in particolare il Kenya – ha adottato delle misure contro i rifugiati che sono simili ad alcune linee europee. E’ un segno di globalizzazione, in senso ovviamente negativo?
Oggi in Kenya ci sono misure di sicurezza molto, molto forti. Per esempio: per entrare nei supermercati, c’è un check dei metalli, ti fanno passare in mezzo a porte che controllano se tu hai addosso dei metalli e quindi delle pistole, quindi dei mitra; le borse devono essere messe nei tunnel di controllo ai Raggi X. E questo soprattutto dopo il Westgate, l’attacco commerciale al centro commerciale del Westgate nel settembre di qualche anno fa. E si vive in quel modo, soprattutto nella capitale ovviamente e sulla costa, dove il rischio di infiltrazioni dalla Somalia è ancora più alto, perché lì si arriva proprio via terra o addirittura via bara: le frontiere sono già estremamente permeabili in quella parte del mondo. La situazione di sicurezza è abbastanza precaria in Kenya, anche se oggi è molto più tranquillo rispetto a qualche anno fa. Il problema è l’intelligence: se l’intelligence è in grado di muoversi bene, di fare i controlli bene, di investigare bene, allora si può pensare di tornare ad una situazione antiattentato al Centro Commerciale Westgate; l’intelligence del Kenya è aiutata dagli israeliani… E’ abbastanza difficile la situazione!

 

STORIA DEL CAMPO PROFUGHI DI DADAAB
I campi di Dadaab : Ifo, Dagahaley, e Hagadera vennero costruiti nei primi anni novanta. Il campo di Ifo venne inizialmente colonizzato dai profughi fuggiti dalla guerra civile in Somalia. Come la popolazione dei campi cresceva, l’UHNCR si impegnò a migliorare le loro condizioni. Per questo prese contattò, sia con l’architetto tedesco, Werner Shellenberg, progettista del campo Dagahaley, che con l’architetto svedese Peter Iwansson, progettista del campo di Hagadera. Per molti anni i campi sono stati gestiti dalla CARE, mentre la gestione ambientale e lo smaltimento dei rifiuti dalla GTZ. La deforestazione ha avuto un effetto negativo sulla vita dei residenti della città e dei campi. Nonostante si sia consigliato i rifigiati di rimanere nel campo, le donne e ragazzi spesso si avventurano alla ricerca di legna e acqua, con il rischio che possano essere aggredite e/o violentante nel percorso da e verso il campo. Nel 2006, diverse inondazioni colpirono gravemente la regione. Vennero distrutte circa 2.000 abitazioni presenti nel campo profughi di Ifo, costringendo al trasferimento di più di 10.000 persone. L’unica strada di accesso al campo e per la città venne interrotta a causa delle inondazioni, di fatto impedendo ai rifiugiati l’accesso ai rifornimenti essenziali. Le agenzie umanitarie presenti nella zona hanno intensamente collaborato per rifornire la zona devastata, di cibo, acqua e logistica. Nel corso del 2007, grazie allo sforzo del Consiglio dei Rifugiati Norvegese, il campo di Ifo 2 venne ampliato. Tuttavia, problemi legali sorti con il governo keniano ha impedito, fino al 2011, la sua completa riapertura, e conseguente reinsediamento della popolazione. Con gli altri campi al limite delle loro capacità, le ONG hanno comunque lavorato intensamente per migliorare le condizioni di vita. Tuttavia, anche in questo caso, sono mancati gli strumenti per risolvere problemi complessi, poche sono state poche innovazioni per migliorare le condizioni dei rifugiati. Vi sono comunque stati risolti diversi problemi, come il potenziamento e l’espansione dei processi per le infrastrutture di comunicazione, la gestione ambientale e la progettazione.

Nel 2011, l’Africa Orientale venne colpita da una grave siccità, provocando un drammatico aumento della popolazione dei campi.  Si stima che nel luglio 2011 giungevano ai campi più di 1.000 persone al giorno, con un disperato bisogno di assistenza.  L’enorme afflusso di persone mise pesantemente sotto pressione le risorse della base: per esempio la capacità dei campi in condizioni normali era di circa 90.000 persone, mentre nel luglio 2011 venivano ospitati ben 439.000 persone. Secondo le stime dell’l’UNHCR e dei Medici Senza Frontiere,  il numero di rifugiati avrebbe dovuto salire, entro la fine del 2011, a 500.000 persone.  Secondo la Federazione Mondiale Luterana, grazie alle operazioni militari nelle zone di conflitto della Somalia meridionale e al progressivo aumento delle operazioni di soccorso, iniziate nel dicembre 2011, hanno notevolmente ridotto il movimento dei migranti verso Dadaab, smentendo le previsione più pessimistiche. Inoltre, una serie di previsioni meteorologiche che hanno superato le aspettative più ottimistiche hanno migliorato le prospettive di un buon raccolto, atteso per i primi mesi del 2012.

Nel febbraio 2012 le agenzie umanitarie avevano spostato la loro attenzione sullo sforzo nella ripresa, tra cui scavare canali d’irrigazione e distribuire semi. Vennero inoltre concordate con i governi nazionali strategie a lungo termine, in collaborazione con le agenzie di sviluppo, per offrire risultati più sostenibili. Nel novembre 2013, i Ministeri degli Esteri della Somalia e del Kenya, in collaborazione con l’UNHCR, hanno firmato a Mogadiscio un accordo trilaterale, spianando la strada per il rimpatrio volontario di cittadini somali che vivevano a Dadaab. Nel febbraio 2014, tra 80.000 e 100.000 residenti lasciarono volontariamente il campo per raggiungere la Somalia, riducendo significativamente la popolazione e di conseguenza la pressione sulle risorse della base. Altri 2.000 erano ritornati nei distretti di Luuq, Baidoa e Kismayo in Somalia meridionale, nel quadro del progetto di rimpatrio. Secondo l’UNHCR, a partire dal giugno 2015 il centro ospita 350.000 persone , l’80% dei quali donne e bambini, per il 95% di nazionalità somala. Tuttavia, la maggior parte dei profughi era rimpatriato in modo indipendente. Nel mese di aprile del 2015, il governo del Kenya ha chiesto all’UNHCR di rimpatriare, entro tre mesi, i restanti profughi in una zona apposita, situata in Somalia. Il governo federale somalo e l’UNHCR hanno poi confermato che il rimpatrio sarebbe continuato con modalità volontarie, ai sensi dell’accordo trilaterale, e che otto distretti somali, luoghi di origine della maggior parte dei profughi, erano ormai considerati sicuri per il rimpatrio. 

 

PROGRAMMA 21MO VIAGGIO DI SOLIDARIETA’  AMICI DI SANTINA ZUCCHINELLI ONLUS KENYA, 16-23 FEBBRAIO 2017

GIORNO MATTINO POMERIGGIO
Mercoledì
15 febbraio
  – Ore 18.00 Santa Messa e preghiera. Inizio 21mo viaggio di solidarietà
– Ore 20,30 Cena fraterna
Giovedì
16 febbraio
Ore 7.00 Santa Messa Con il Card. Comastri
Ore 8.00 Lavoro in Ufficio
Ore 11.30 Partenza per FiumicinoVIAGGIO INTERCONTINENTALE:
ITALIA
OLANDA
KENYA 
– Ore 14.30 KL 3402
Roma – Amsterdam
ore 17.00
– Ore 20.35 KL 4141
Amsterdam – Nairobi
Ore 6.40  
Venerdì
17 febbraio
– Ore 10.15 KL 4129
Nairobi – Mombasa
Ore 11.15
Transfer con Jimmy a Watamu 
Riposo
Ore17.00 S. Messa
Ore 18.00 Breefing con Jimmy e Doreen per viaggio a Dadaab refugee Camp
Ore 20,00 Cena insieme
Sabato
18 febbraio
Ore 4.30 Santa Messa
Ore 5.30 partenza per Bura Tana
Ore 12.00 Pranzo a Bura Tana
Ore 16.30 Arrivo a Garissa Cena e pernottamento
Domenica
19 febbraio
Ore 6.00 Partenza per Dadaab Refugee Camp con S.E. Mons. Joè Alessandro, Vescovo di Garissa
– Celebrazione Santa Messa
– Visita del Campo profughi più grande del mondo
Ore 16.00 Rientro a Garissa Cena e pernottamento
Lunedì
20 febbraio
Ore 5.00 s.Messa e partenza
Ore 12.00 Pranzo a Ola
Ore 17.00 arrivo a WatamuCena e pernottamento
Martedì
21 febbraio
Ore 7.00 Santa Messa
Ore 8.00 partenza per Msabaha:
visita alla piccola Santina
Ore 10.00 Visita famiglie dei 10 bambini in adozione a distanza
Incontro con Padre Hillary
Ore 14.00 partenza per Malindi ed incontro con Mons. Barbara
Ore 17.00 Incontro con Ushikiriano Center per rinnovo CCOO 2017
Rientro a Watamu per cena e pernottamento
Mercoledì
22 febbraio
Ore 7.00 Santa Messa 
Ore 8.00 Partenza per Msabaha ed incontro con bambini nuovo programma di adozione a distanza
Ore 12.00 Pranzo e rientro a Msabaha
Ore 15.00 Visita ai malati di HIV e incontro con le famiglie
Ore 18.00 saluti alla piccola Santina
Rientro a Watamu cena e riposo
Ore 24 partenza con Jimmy per aeroporto
Giovedì
23 febbraio
– Ore 4.20 KL4147
Mombasa – Nairobi
Ore 5,20Ore 8.05 KL 4140
Nairobi – Amsterdam
Ore 15.40VIAGGIO INTERCONTINENTALE:
KENYA
OLANDA
ITALIA 
Ore 17.50 KL3403
Amsterdam – Roma
Ore 20.00FINE 21MO
VIAGGIO DI SOLIDARIETA’

 

JOE. CICATRICI D’AMORE
Diario del 21mo viaggio di solidarietà di Fondazione Santina a Dadaab Refugee Camp in Kenya
16-23 febbraio 2017

INDICE DESTRO
L’imbarco del mio volo per Amsterdam sta per chiudere, imbarcano dal gate B10. Ho passaporto in mano, cerco dallo zaino il biglietto… Lo trovo. In verità ne ho 3 di carte d’ imbarco. Un volo complesso che mi manda a Mombasa per soli Euro 525, ma mi fa viaggiare per 18 ore. Roma Amsterdam, poi questa notte Amsterdam Nairobi e poi domani Nairobi Mombasa. Mentalmente cerco di ricordarmi per ultima volta se ho preso tutto con me, mi tranquillizzo. Ho proprio tutto! Posso imbarcarmi. Davanti a me breve coda, sono quasi tutti imbarcati. Lentamente mi avvicino e una hostes mi aspetta con un sorriso. È giovane deve avere meno di trent’anni. Molto carina e con un trucco ben curato. Ma di lei non mi colpisce il trucco e la sua bellezza, ma mi colpisce il suo indice destro. Davanti a me ci sono due persone, osservo la ragazza strappare meticolosamente la carta d’imbarco, dando il tagliando ai passeggeri che mi precedono. È proprio in questo gesto dello strappare le carte d’ imbarco che osservo il suo indice. Ha un piccolo anello d’orato. Mi faccio curioso. Sono un sacerdote e… Mi viene in mente qualche cosa. Ma fermo il pensiero e aguzzo la vista. Sono un po’ orbo ma i miei occhi riescono a mettere a fuoco con precisione. Si è Lei: è una coroncina del Rosario! Riguardo una seconda volta, ne sono sicuro. La donna mi sorride guarda passaporto, guarda carta d’ imbarco e strappa, mi riconsegna il pezzo che contrassegna il posto. Dolcemente le trattengo la mano per un breve istante. Lo faccio in modo molto prudente, ma mentre tengo la sua mano curata le dico: “Grazie per il bellissimo esempio che mi hai dato. Non ti vergognare mai, come oggi di mostrare a tutti i passeggeri che porti il rosario al dito! E io sono sicuro che anche lo reciti…. La giovane hostes arrossisce, guarda la sua mano e mi guarda dritto negli occhi. Le rispondo: “Sono un sacerdote, sto andando in un paese islamico e mi ha fatto bene vedere che non ti vergogni di essere cristiana. Vado a Dadaab Refugee camp al confine tra Kenya e Somalia! “Padre è pericoloso… So che cosa è, tristemente è noto, vi è una marea di gente che soffre, stai attento.” Lascio lentamente la sua mano, lei si è spostata e la collega benevolmente la sostituisce per una manciata di secondi. “per questo motivo mi hai fatto tanto bene al cuore vedere il tuo rosario. Brava non avere mai paura a mostrarti una cristiana: mentre tu strappi i biglietti, dai testimonianza con il tuo indice destro, fai catechesi. Molti, la maggioranza non lo riconosceranno, ma ne basta uno solo, un povero prete come me, per dire che oggi proprio con il tuo piccolo segno cristiano hai fatto una grande cosa. Estraggo il mio rosario di plastica gialla. Viene dall’ Iraq. Ho scelto quello come compagno di viaggio. Vedi, dico alla ragazza, questo l’ ho preso da un campo profughi a 45 chilometri da Mosul. Anche quella povera gente non si è vergognata di essere cristiana e per questo motivo ha perso tutto minacciata dall’ISIS è dovuta fuggire. Ha te non è richiesto di lasciare tutto, ma semplicemente l’ audacia di continuare a fare quello che hai fatto oggi. Me lo prometti?,La ragazza mi guarda con uno sguardo dolce e mi dice. Padre, grazie per quello che mi hai detto! Sono felice dei tuoi apprezzamenti, recito il rosario tutti i giorni e ti prometto che mentre tu volerai verso Amsterdam, proprio in queste ore reciterò il rosario per te! Le strinsi forte la mano e nel cuore mi entrò una grande forza e pace. Non sono solo: tante persone buone pregano per me. E tu che hai letto fino a queste parole, questa sera te la senti di recitare un rosario per me? Ci si impiega 20 minuti, ma fa bene al cuore! Io ci conto…. Per questo ho scritto questo paragrafo per rubarti un rosario! Stiamo atterrando devo chiudere, penso a quella ragazza ed al rosario che ha recitato per me proprio in queste ore… Stiamo lasciando l’aereo… Le porte sono aperte. Un signore italiano di mezza età mette la sua mano sul poggiatesta del suo posto davanti al mio, e…. Sulla’ anulare della mano destra? Non è possibile! Un rosario… Lo raggiungo in aeroporto e lo saluto garbatamente, anche la moglie ha al dito un rosario: se guardi bene attorno a te, vi è più fede di quello che credi… Cercala perchè la fede non appare è umile e discreta ma ha una grande efficacia si chiama testimonianza. A proposito! Hai preso la decisione di dire il rosario? Se è si metti ok in un tuo commento a tutto questo… Anche questo è un piccolo segno con il quale mostrare la tua fede… Oggi volando ad Amsterdam ho imparato tutto questo. E sono solo poche ore che viaggio. Un forte abbraccio mentre scrivo davanti ad un frullato ai frutti di bosco in aeroporto… Ho tre lunghe ore da occupare.

ECUMENISMO DI ACQUA PURA
Ieri a Watamu è stata una giornata pesante dopo il lungo viaggio riunioni con Jimmy e Doreen per programmare viaggio a Dadaab. La macchina è forte e robusta ed è Toyota Prado, alcuni benefattori ci hanno permesso di poterla noleggiare visto la strada dura, impervia e pericolosa che dobbiamo percorrere. Sembra che Jimmy abbia fatto un ottima scelta. Mentre io disfo la valigia e preparo lo zaino per Dadaab, Doreen e Jimmy vanno al supermercato per le provviste e soprattutto l’acqua. La zona dove siamo diretti è in centro ad una grave siccità i vescovi del Kenya hanno chiesto di dichiarare calamità nazionale. I ragazzi ritornano dalla città con le provviste e prima di cena ultimo meeting: chiamiamo il vescovo di Garissa. Ci ricorda di portare documenti personali. Per entrare nel campo di Dadaab è necessario la sicurezza di militari e portare documenti per il PAS. Loro ci scorteranno da Garissa a Dadaab. Tutto è pronto; sprofondo in un sonno ristoratore. Alle 4.30 Jimmy mi attende. Beviamo un caffè bollente nel caldo africano della notte e passiamo a prendere Doreen. Siamo molto affiatati e in un viaggio del genere è fondamentale. Sento forte la mancanza degli amici italiani che l’altra volta mi avevano accompagnato e quella dei padri missionari Ernesto ed Alessandro. Sono unico bianco e questo subito in Africa significa cristiano e purtroppo ricco. I ragazzi mi abbracciano forte e mi dicono che andrà tutto bene. Per loro è il viaggio più lungo della loro vita. Mai fatto un viaggio così distante! sono emozionati e anche velatamente preoccupati. Si fidano ciecamente di me. Mi hanno visto a Challapalca e poi in Iraq, in Vietnam; in posti duri difficili e pericolosi. So che in Italia la gente che ci vuole bene sta pregando per noi. Al collo ho la medaglia dell’arcangelo Michele che avevo ultima volta a Garissa e al polso in un rosario colorato di spago una piccola medaglia dell’ arcangelo Michele che avevo a Gaza in una delle prime missioni umanitarie. Siamo tranquilli e così partiamo… Dopo un’ ora la strada asfaltata lascia il posto alla pista sterrata piena di buche, una bellissima gazzella ci attraversa la strada, delle scimmiette scappano via. Poi la polvere della strada inizia ad annebbiare la vista è il panorama cambia e si fa isolato. La macchina va bene e sembra in ottimo stato. Controlli di polizia di routine, poi due pastori somali con due greggi di capre magre dalle quali succhiano latte perché l’acqua scarseggia. Jimmy è al volante. Tra poco do a lui il cambio. La strada esige molta attenzione perché le buche sono enormi e si deve usare anche la ridotta. Il caldo si fa forte. Ci fermiamo ad un cartello stradale che indica Garissa a 228 km. Ma in Africa i chilometri non contano, conta la strada. Sto scrivendo in macchina, tra scossoni e polvere, ma con una incredibile pace nel cuore. Sono più in pace ora di quando preparavo a Roma il viaggio. Il nostro bellissimo viaggio ci unisce molto e così iniziamo a parlare e a confidarci la vita. Siamo cristiani, ma non cattolici. Io sono cattolico, Jimmy è battista e Doreen appartiene ad una chiesa protestante minore chiamata Oasi di pace, ma ci sentiamo tutti tre fratelli in Gesù . Qui mi sembra tanto una stupidaggine le nostre divisioni quando siamo tutti cristiani. In questa terra dove l’Islam è forte si avverte di meno la differenza confessionale. Tutti tre crediamo nel nome di Gesù e gli vogliamo bene. Ed in questa terra questo è evidente! Perché i somali musulmani non la pensano come noi. Siamo pochi e questa realtà ci unifica. Mi ricordo la stessa cosa a Gaza tra cattolici ed ortodossi. Tra un’ ora saremo a Bura Tana dove abbiamo costruito una chiesa in onore dei martiri di Garissa. Questa terra ha bevuto il loro sangue. Sono morti per il nome di Gesù e sono tutti in paradiso per questo, anche se non tutti i 148 ragazzi martiri erano cattolici. Parliamo di questo e riflettiamo profondamente sulla nostra vita è sulle nostre ragioni profonde del vivere. Riscopro che in queste difficoltà emergono i valori veri che danno spessore e sapore alla vita. Sono felice del mio servizio sacerdotale alla Santa Sede, esso mi permette di vivere queste esperienze profonde forti e che cambiano il modo di pensare ed agire. Mi chiedo sempre perché qui su questa strada dura e pericolosa ai confini con la Somalia mi sento in pace e dormo profondamente, mentre tante volte a Roma ho difficoltà a dormire per le mille cose che penso. Qui proprio in questo istante mentre una grossa buca mi ha fatto sobbalzare scopro ragioni profonde di vita che nel quotidiano in Italia si appannano. Questi viaggi non danno la bella vita, ma una buona vita e questa è la loro forza. E mi fanno sentire stupido. Sicuramente capisco con Jimmy e Doreen che il nome di Gesù è più forte delle nostre confessioni differenti cristiane e che bere insieme da un’ unica bottiglia un litro di acqua è molto più ecumenico che mille discorsi di teologia. In una terra dove l’acqua manca totalmente tre cristiani di differenti confessione che si dissetano dallo stesso collo di bottiglia e bevono la stessa acqua pura e potabile sono un segno forte di comunione e condivisione di ciò che è essenziale: l’acqua e il nome di Gesù. Siamo a un villaggio si chiama Hola prendo il volante e do il cambio a Jimmy che guida dalle 5. Sono le 10.30 e guido per un’ora. Il panorama dopo Bura Tana cambia ancora. Ora sono i cammelli i proprietari e la loro inconfondibile puzza. Cerchiamo una pompa di benzina. Sono tutti musulmani e l’impressione non è piacevole, preferisco stare in macchina. Il caldo ora è molto più forte e lo vedo sulla fronte di Doreen e Jimmy. E loro lo vedono sul mio… Bambini nudi si buttano in stagni luridi dove il fango si confonde con l’acqua. Uomini e donne raccolgono carbone ottenuto per combustione da alberi ancora fumanti. Paesaggi spettrali ed il caldo aumenta. Ci scoliamo un’altra bottiglia di acqua,

Il nostro viaggio attraverso il Kenya

PAURA: FUORI PISTA
Scrivo dalla camera spartana del povero episcopio di Garissa: siamo arrivati, che gioia! la camera ha due meravigliose caratteristiche è di una povertà totale ed è pulitissima. Il cuscino e le lenzuola profumano di bucato, cosa impossibile nell’ Africa di Garissa a 107 km dall’ inferno di Dadaab. Siamo stravolti. Partiti alle cinque del mattino siamo arrivati alle 4 del pomeriggio circa 11 ore di macchina dove con Jimmy ci alterniamo. Lui al voltante sicuro, ma anche un po’ spregiudicato come lo sono i ragazzi a 30 anni. Ma poteva succedere forse più a me che a lui. La pista è impervia buche, polvere sabbia e sassi. Una polvere impossibile da descrivere se non la respiri e la gusti in bocca e nel palato. Il caldo è formidabile i finestrini sono aperti, ma tutti sudiamo abbondantemente. Jimmy evita una buca sulla destra riduce la velocità frena in modo brusco e la macchina pesante più di una tonnellata scivola fuori strada, il tutto con un polverone pazzesco che riempie la macchina di fumo. Finiamo contro degli alti cespugli e in tutto questo casino Doreen urla Jesus una, due tre volte gridando sempre di più! Jimmy si mette le mani nei capelli e io mi sento un brivido nella schiena; ok stanno bene, ma sta polvere che cosa è? Il motore è in fuoco? Scendiamo prontamente dalla macchina e tiro un respiro di sollievo perché il motore è fermo e non brucia, la polvere si dirada e ci lascia tutti sporchi. Subito quantifichiamo i danni, specchietto laterale rotto, ma si può rimettere con un bravo carrozziere a Garissa, qualche graffio all’auto davanti, ma è solo il grande plasticone e… Una grande paura nei polmoni perché per la gran polvere tossiamo. Proviamo la retro e funziona, rimettiamo con calma la macchina sulla pista e controlliamo anche i fanali… Tutto ok. Io faccio fatica a trattenere la incazzatura con il povero ragazzo e sprofondo in un comando secco che non ammette dubbi. Guido io, calmati! Guardo Doreen e la vedo spaventata, lei ha perso il padre in un incidente stradale ed è stata anche lei vittima di incidente in queste strade sbagliate del Kenya povero. Siamo in un altro pianeta lontano da Malindi. Ci guardiamo negli occhi e riprendiamo la strada per Garissa. Parlo con Jimmy e raccomando a lui di guidare con calma, anche se il tempo impiegato dovesse essere molto più lungo. Quando lo vedo tranquillo e calmo dopo circa due ore cedo a lui il volante e chiedo a Doreen una bottiglia di acqua. La scolo in un momento e il viaggio continua fino a Garissa dove giungiamo alle quattro del pomeriggio, stanchi, morti e felici di essere giunti qui. Ci attende una. Grande sorpresa l’ incontro con il vescovo Joe che ci racconta la storia incredibile di quando gli islamisti lo cercarono di uccidere ferendolo terribilmente ad un anca. Ma questo è un altro capitolo.

Dadaab Refugee Camp

DI NUOVO PAURA: PERDERE LA STRADA
Se la strada verso Garissa era stata contrassegnata dall’incidente che ci ha buttato fuori strada. La via del ritorno è stata invece caratterizzata dall’aver perso la via. Questa volta per colpa mia. Nel lungo viaggio di ritorno a Watamu con Jimmy decidiamo di guidare lentamente, per non rovinare inutilmente la bella macchina e di alternarci alla guida per non stancarci troppo. Abbiamo con noi molta acqua e dopo il rifornimento al villaggio di Bura Tana prendo il volante. La strada è bruttissima e la natura è molto selvaggia, branchi di cammelli ci attraversano talvolta la strada, rovi appuntiti, cespugli ed alberi e …tanto, tanto caldo! Con Jimmy e Doreen siamo riusciti a creare un clima di intimità e famiglia. I due ragazzi neri mi chiedono la storia della mia vocazione e chiedono che parli loro della mia infanzia. Poi chiedono su come sia la vita in Italia, è un clima cordiale e molto familiare. Attorno a noi nessuno, ma il pieno di 87 litri appena fatto e la grande quantità di acqua che abbiamo nel baule mi danno una certa sicurezza. Abbandono il letto della strada principale per una piccola deviazione che sembra avere una strada più bella per il nostro Land cruise. La pista in verità, molte volte si perde in sentieri secondari che riportano nella stessa strada. Ma questa volta no! Sono le 11 del mattino e dopo un paio di chilometri ci accorgiamo di essere fuori pista. Ora vi descrivo il mio stato d’animo. Sono bianco, non sono del Kenya e sono solo. In questo viaggio seppure la cordialità dei due giovani sia stata stupenda ho sentito il peso di avere la responsabilità, non solo su di me, ma anche su loro due. Jimmy si accorde e mi dice: “Gigi abbiamo perso la strada?” Rispondo: “Ho proprio paura di sì”. “Cosa facciamo allora Padre?” Prima di tutto dico a me stesso di rimanere calmo, poi dico a Jimmy: “il primo somalo che incontriamo, domandiamo a lui la strada, va bene?” Il ragazzo annuisce e Doreen dal retro della macchina dice: “Gigi non avere paura affidiamoci nelle mani di Dio, tutto andrà bene!” Ha ragione. Ma…il sole è caldo, le buche sono profonde, la strada è pessima. Mi scoraggio. Ma dove stiamo andando? Sono stato un idiota nel voler compiere da solo questo viaggio pericoloso, lontanissimo dall’Italia ed anche lontano da una forma di vita civile. Siamo diretti verso il piccolo villaggio di Garsen. Ma è questa la direzione? Nel caldo del mezzogiorno appaiono alcune capre magre guidate da un ragazzino di 10 anni. Jimmy chiede a lui, ma non capisce; parla somalo. Regaliamo a lui una bottiglietta di acqua e i suoi occhi si riempiono di luce. Forse solo in questo viaggio in una terra secca e riarsa dalla siccità capisco il valore dell’acqua potabile e del regalare un bicchiere di acqua ad un assetato. Nella testa mi vengono in mente i terroristi di Al Shabab, gli uomini della Shifta, che assalirono il vescovo Joe; poi è la volta dei serpenti, delle iene e dei leoni. Un frullato nella testa devastante nel calo africano. Doreen continua ad offrirmi acqua che bevo avidamente. Jimmy fa la stessa cosa. Iniziamo ad essere stanchi e la litania nel mio cervello è: dove stiamo andando? Ecco una mandria di cammelli con una donna che li guida. Doreen chiede a lei indicazioni per Garsen e questa volta la donna ci indica la direzione, ma ci dice che siamo ancora lontani. Il desiderio è quello di spingere l’acceleratore, ma poi alla brutta esperienza di Jimmy e continuo a mantenere la velocità costante e bassa. Perdere la strada, non è bello! Quante volte nella vita perdiamo la strada, quante persone disorientate e incapaci di uscire dal pantano della confusione. Persone infelici che non sanno quale direzione dare alla vita, a quale meta tendere. Ringrazio umilmente Dio per il dono della mia vocazione sacerdotale che mi ha fatto sempre vedere nella mia miseria l’orientamento verso Dio. L’esperienza del perdere la strada in Africa e in questa terra arida e secca crea insicurezza, crea una certa angoscia. Ma in tutto questo cementa ancora di più il mio rapporto con Jimmy e con Doreen. E’ meravigliosa questa esperienza: la difficoltà ha il pregio di unire le persone e di cancellare le differenze etniche e raziali, anzi proprio anche a motivo di questo il cemento della solidarietà ci lega ancora più forte. Con tutta l’acqua che ho bevuto, devo fare una sosta per fare la pipì. Il silenzio scende assoluto sulla pista solo il rumore del vento tra gli arbusti. Ci riposiamo e decidiamo di pregare insieme. I ragazzi ricordano quando nell’altro viaggio avevamo baciato il Vangelo prima di entrare a Garissa con la volontà di onorarlo e testimoniarlo, chiedono di ripetere il gesto. E molto volentieri lo ripropongo, poi ci scambiamo il segno della pace. Beviamo acqua. A questo punto mi sento commosso da questa situazione estrema. Persi in mezzo alle piste sterrate, polverose e calde del Kenya con due giovani ragazzi. Inizio a parlare: “ Ragazzi! Vi voglio ringraziare. Non vi ho portato in un lussuoso hotel della costa, non vi ho proposto un safari all’Italiana con tutte le comodità ma un viaggio duro, difficile e pericoloso. Duro perché le condizioni sono estreme: non è bello viaggiare in mezzo alla sicictà; difficile perché abbiamo perso la pista e pericoloso perché questa terra è infestata da banditi e da islamisti fanatici: eppure siete qui con me, grazie: vi voglio bene! A quel punto Doreen mi abbraccia forte e mi dice: “Gigi da tanto tempo aspettavamo questo viaggio! Noi siamo felici, grazie a te per fidarti di noi, ma sappi che noi ci fidiamo totalmente di te”. Anche Jimmy mi abbraccia forte e mi dice: “Grazie padre per questo viaggio, il viaggio più lungo della mia vita. Ora tu sei stanco, dammi le chiavi, guido io, tuo figlio!” Come un buon padre do una pacca sulle spalle di Jimmy e dico a lui: forza, fammi vedere cosa sai fare!” Saltiamo in macchina, regaliamo bottigliette di acqua ai passanti e finalmente ecco persone che ci danno indicazioni chiare e sicure. Jimmy con calma guida il land cruise, schiva le buche e sceglie la parte di pista più consona al nostro potente fuoristrada. Lontano appare qualche casa: sono le case di Garsen, abbiamo ritrovato la pista… tra alcune ore saremo a casa!

LA MANINA SPEZZATA
Il contesto sociale di Garissa e del Campo profughi di Dadaab è quello nel quale non è facile essere cristiani, anzi è rischioso; quando l’islam diventa violento ed aggressivo la vita per i cristiani rischia la discriminazione e tante volte anche la propria incolumità. E’ lo stesso panorama che ho incontrato e visto in Iraq e a Gaza. Essere cristiani nella diocesi di Garissa significa rischiare la vita e tante volte perderla. L’esempio più forte e drammatico è quello del massacro all’Università dove, il 2 aprile 2015, 148 ragazzi hanno perso la vita. In questo volumetto dedicato al Vescovo Joe ed alla situazione dei cristiani nel campo profughi di Dadaab, ascolteremo storie di martirio e persecuzione, vedremo i segni della tortura e del disprezzo. Ma prima di parlare di loro, di Joe, di Gladis e di altri testimoni, vi voglio parlare di una manina spezzata. L’islamismo violento, prima di accanirsi contro le persone cristiane, si accanisce contro i segni dei cristiani, in primo luogo la croce ed il crocifisso. Ricordo nella Striscia di Gaza nell’anno 2014 del racconto delle suore di Madre Teresa. Loro avevano all’uscita del loro istituto che accoglie bambini handicappati islamici una statua della Madonna, alla quale le buone suore attaccavano la corona del rosario in plastica. Bene, quasi ogni settimana, questa corona del rosario veniva trovata per terra con la croce spezzata. Le suore puntualmente la sostituivano e puntualmente la croce veniva spezzata. Sempre a Gaza, Ramy, il cristiano protestante che vendeva bibbie, prima di essere brutalmente ucciso trovò in fiamme il suo negozio. In Iraq ho visto invece le chiese vicino a Mosul profanate e le grandi croce scaraventate a terra e ridotte in frantumi. Sono tutte foto da me scattate e che mi hanno fatto toccare con mano la violenza di un certo islam contro i segni cristiani. Se questo è vero a Gaza e a Mosul è anche vero nella Diocesi di Garissa. Lo scorso anno visitando la missione di Bura Tana, dove abbiamo costruito una chiesetta in onore dei martiri, sul cippo di ingresso alla missione vi era una croce che è stata divelta. Anche di questo fatto conservo la foto. Ma in questo nostro viaggio verso l’inferno di Dadaab parlando con il vescovo Joe ho sentito parlare di un portachiavi con una Madonnina appartenente ad un cristiano, ritrovato per strada da un musulmano, che dopo averlo raccolto da terra, accortosi della Madonnina, stacca le chiavi e le getta lontano e calpesta con ferocia la Madonnina…  Uno dei regali più preziosi di questo viaggio a Dadaab, oltre la ricca testimonianza del vescovo Joe è una manina spezzata che custodisco come una reliquia del sangue dei 148 giovani. Vi racconto la storia. Stiamo cenando nell’episcopio di Garissa, una casa semplice e pulita ma dove l’accoglienza mostra il cuore grande del vescovo Joe. Io sono seduto di fronte a lui, alla mia destra vi è Brother Joseph e alla mia sinistra Jimmy. Alla sinistra del vescovo vi è Doreen. Siamo al termine di una lunga giornata iniziata alle 4 del mattino. Una giornata per noi tre, io, Jimmy e Doreen, fatta di spavento per l’incidente avvenuto nella pista, fatta di polvere, di sete, di caldo e di paura per gli uomini di Al Shabab. Siamo freschi dalla doccia che ci ha tolto la polvere del giorno e discretamente affamati. A tavola parliamo di quanto sia importante la coerenza per i cristiani di Garissa di fronte alle sfide dell’islamismo. Da parte mia ricordo al vescovo le mie esperienze in Iraq, a Gaza, e nella sua diocesi a Bura Tana dove i segni religiosi cristiani sono profanati. Il vescovo Joe mi segue con attenzione e silenzioso. Poi mi dice. “Non devi andare molto lontano alla ricerca di segni di profanazione. Ti racconto una piccola storia. Da Malta ci avevano regalato una bella statua di gesso di Maria con in braccio Gesù Bambino. Una statua di circa un metro dipinta finemente, non ha un grande valore. Pensai di metterla fuori dall’orfanotrofio che raccoglie in maggior parte bambini musulmani, perché non esistono in Garissa istituti che accolgano gli orfani come noi facciamo. La statuetta era fuori, all’ingresso dell’edificio. Bella, con il Bambino Gesù con le braccia aperte che mostrava le sue manine. Una brutta mattina ho trovato la statua profanata: avevano spezzato le due manine e le avevano lasciate ai piedi della statua, una in frantumi e l’altra ancora intatta. Raccolsi devotamente la piccola mano e decisi di portare la statua qui in episcopio”. Seguo con molta attenzione tutte le parole del vescovo e con me seguono con la bocca spalancata Jimmy e Doreen. Brother Joseph mostra invece di essere già a conoscenza della triste storia. Il vescovo mi fissa, ferma un momento il racconto e un breve spazio di silenzio crea nella mia mente un profondo raccoglimento. Il vescovo continua: “ Quella statua è qui! Voltati don gigi è alle tue spalle nell’angolo. Lentamente mi giro e la vedo. Una profonda tristezza mi entra nel cuore. Il bel Gesù Bambino in braccio alla sua mamma non ha più le manine, è monco! Sembra essere un disabile, sembra essere un bimbo che ha bisogno di essere accudito ed aiutato. Una terribile tristezza mi sale dal cuore. Mi alzo lentamente e mia avvicino con devozione alla statuina. Seduti, dal tavolo, gli altri commensali seguono con gli occhi i miei movimenti. Mi commuovo e silenziosamente davanti alla statua mi rivolgo a Gesù: “Ma cosa ti hanno fatto? Mio Gesù ti hanno tagliato le mani! Cosa facciamo noi poveracci senza le tue mani misericordiose? E’ una preghiera. In questa terra devastata da fame, carestie, odi raziali trova il posto anche la persecuzione religiosa. L’islamismo imperante che ha tagliato le mani a questo Gesù Bambino, che ha profanato la sacra immagine, è lo stesso che ha massacrato 148 giovani all’università della città, che ha ferito anni fa il vescovo Joe. Che si chiami Al Shabab o che si chiamasse una volta Shifta*, poco importa, rimane il fatto di una forte violenza contro i cristiani”. Mi abbasso verso la statua e vedo che la manina spezzata è appoggiata ai piedi della Vergine. Con il timore di poter danneggiare quella manina la prendo tra le dita e la mostro a Doreen e a Jimmy. Il Vescovo Joe interviene. “Quella manina dovremmo attaccarla alla statua, ma mancherebbe sempre l’altra mano…” “Oppure, intervengo io, se la lasciate così, me la prendo io!” Mi rendo conto di essere stato un po’ sfacciato, ma quella piccola mano ha su di me un grande fascino. E’ una terrificante provocazione. E’ il segno di un dispregio che è presente in ogni persecuzione religiosa, come avveniva nel Giappone del 1500 quando ai cristiani veniva chiesto di calpestare l’immagine di Gesù. Anche questo spezzare le mani di Gesù Bambino significava calpestare la sua dignità, significa per me la forte provocazione gridata dalla muta statua: “ma tu don gigi, vuoi essere le mie mani, ora che io ho le mani spezzate dall’odio degli uomini?” Quella provocazione mi entrava dentro come una voce leggera, come un sussurro, per esplodere poi nel centro del cuore come un tuono: “Don gigi, vuoi essere oggi la mia mano?” Quella piccola mano di gesso dal valore insignificante era ora tra le mie mani e la forte domanda mi portava indietro nel tempo, quando anni e anni fa un giorno le mie mani furono unte dal vescovo e divennero realmente le mani di Gesù nel consacrare il pane ed il vino e nel perdonare i peccati. Quella manina spezzata mi spingeva a prendere nuovamente consapevolezza del dono posto nelle mie mani a servizio della Chiesa. Risposi a quel tuono nel cuore dicendo: “Grazie Gesù di aver consacrato le mie mani indegne, grazie di aver scelto le mie mani per sostituire le tue. Proprio in questo momento, ti ripeto il mio sì! Qui a Garissa, in modo più sofferto ma più maturo di trent’anni fa. Ti ringrazio e ti adoro, proteggi sempre il mio sacerdozio. Facendo così diedi un piccolo bacio alla manina e la stavo per riporre, quando la voce forte del vescovo mi riportò alla realtà. “ Don gigi, tienila: te la regalo volentieri! Portala con te a Roma e ricordati di Garissa…” Guardai il Vescovo con grande commozione e Gli dissi: “Grazie di cuore Eccellenza è un regalo preziosissimo, di un inestimabile valore. Lo terrò come un prezioso tesoro, in ricordo di questa terra che beve sangue di cristiani e che profana le croci …e mi ricorderò di Lei e della potenza di questo regalo. La mattina di lunedì il Vescovo Joe, durante la Messa al momento della Comunione mi consegnava quella piccola mano spezzata, dopo averla benedetta. Ripartivo da Garissa con un geloso tesoro da custodire con fede. E oggi quella piccola mano conservata in una semplice scatola trasparente mi da una incredibile forza e mi ricorda che le mie mani sono chiamate ad essere oggi le mani di Gesù

*Shifta
Il termine scifta (o, in senso dispregiativo, t’era scifta) viene usato in diversi paesi dell’Africa orientale, e in particolare Eritrea, Etiopia, Kenya e Somalia, per indicare coloro che si oppongono alle istituzioni ufficiali, sulla base di motivazioni politiche, e che intraprendono di conseguenza una vita da ribelli e fuorilegge. Storicamente, venivano chiamate shifta anche le milizie che operavano nelle più remote zone rurali e montane del Corno d’Africa, dove le istituzioni sia coloniali che postcoloniali avevano difficoltà a imporre il proprio controllo.

IL DONO DI UNA PALLOTTOLA
di Joe Alessandro OFM Cap, Vescovo della Diocesi di Garissa in Kenya
Arrivai in Kenya nel Novembre del 1989 per unirmi con i miei Fratelli Francescani Cappuccini che operavano in quel luogo dal Gennaio 1974. Fui immediatamente assegnato alla parrocchia della missione di Garissa e mentre condividevo il lavoro pastorale con la parrocchia ero anche responsabile della Boys’ Town, che la missione gestiva ormai da quasi vent’anni. Quando arrivai dovemmo provvedere a tutti i bisogni di circa ottanta ragazzi maschi orfani che provenivano da famiglie molto povere. Stavo sperimentando la vera gioia, poiché attraverso questo apostolato sentivo che stavo vivendo il Vangelo nella sua semplicità, con persone che avevano bisogno praticamente di tutto. Nel Gennaio del 1993, durante il nostro capitolo della Custodia Cappuccina del Kenya, fui scelto come Superiore. Oltre alle altre responsabilità, principalmente quelle riguardanti la formazione dei nostri candidati keniani, dovevo viaggiare molto su strade accidentate e poco sicure per andare a visitare regolarmente i miei fratelli missionari e stare con loro alcuni giorni in ogni stazione della Missione. Prima di iniziare ogni viaggio ero solito pregare Dio affinché mi assistesse e la Vergine Maria perché lei stessa mi guidasse: non potevo proferire altra preghiera se non affidare loro tutto me stesso. Solevo ripetere la seguente preghiera: “Signore, mi affido a te. Non ho nulla da perdere, nemmeno la vita stessa; tu sai che l’ho già data a te nella mia professione di fede e nella mia ordinazione sacerdotale. Maria, Madre mia, assistimi sempre”. Durante una di queste visite ai miei Fratelli, Lunedì 18 Ottobre del 1993, festa di San Luca Evangelista, ero pronto per partire dalla nostra Casa di Formazione nella parrocchia di Mpeketoni, dove avevamo i nostri Aspiranti e Postulanti keniani. In quel luogo questi giovani keniani passano due anni di formazione in preparazione al loro anno di Noviziato in Tanzania. Durante quella visita avevo accettato altri quattro nuovi candidati keniani per iniziare il loro programma di formazione. Con me c’erano anche tre volontari maltesi che si trovavano in Kenya da un po’ di tempo e stavano facendo l’ultimo viaggio prima del loro ritorno a Malta. Il prete di Mpeketoni, Padre Hilary, che in quel momento non stava bene, mi aveva chiesto di unirsi a noi per un check-up medico di routine a Nairobi. La mattina presto di quel 18 Ottobre lasciammo Mpeketoni e stavo guidando io stesso. Il tempo era molto nuvoloso e con rovesci. Come al solito, passammo il primo controllo della polizia nel villaggio di Witu e poi ci dirigemmo verso la stazione successiva della missione, la parrocchia di Wema. Ma prima di arrivare lì, ad alcuni kilometri di distanza dalla parrocchia quattro uomini armati, puntando le armi alla nostra auto, fecero segno di fermarci. Questi facevano parte del gruppo terroristico “Shifta”.Non appena stavo per fermare l’auto, uno dei banditi aprì il fuoco. Una pallottola attraversò la portiera alla mia destra. La pallottola sparata era una di quelle del tipo chiamato “damdam”, che esplode non appena colpisce il bersaglio. Quando esplose nella mia gamba tutti i frammenti entrarono nel mio fianco destro e sentii anche alcune parti più piccole nelle budella – ed in effetti alcune schegge sono ancora lì. In quel momento sentii come se ci fosse un grande bruciore dentro di me. Quando ci fermammo vidi questi Shifta intorno a noi e ci ordinarono di scendere subito dall’auto. Visto che non riuscivo a scendere da solo a causa della mia gamba destra ferita, dove il mio femore era in frantumi, i volontari mi aiutarono a uscire dall’auto. Durante tutto questo tempo eravamo continuamente sotto la minaccia dei banditi con i loro fucili puntati contro la nostra schiena. Nello stato in cui ero, fui lasciato sotto un albero in modo da non essere visto affatto. Gli Shifta ordinarono agli altri quattro che mi accompagnavano di salire in macchina di nuovo, ma prima di andarsene, due dei banditi tornarono da me chiedendomi dei soldi. Dissi loro che non ne avevo e quindi mi presero tutto quello che potevano portare, inclusi occhiali, orologio da polso, cintura, scarpe e calzini. Mi lasciarono in jeans e t-shirt. Poi sentii il rumore del motore accendersi e l’auto sparì. Fui lasciato dunque li, nel silenzio più totale. Dato che era ancora presto quella mattina, avevo fiducia del fatto che qualcuno potesse passare su quella strada. Tentai di strisciare più lentamente che potevo, con la poca forza che era rimasta in me e mi spostai con difficoltà da quell’albero sotto il quale mi trovavo per raggiungere un punto da cui potessi vedere la strada. Non fu affatto facile arrivare lì. Non riuscivo ad alzarmi in piedi e sentivo il sangue scorrere dalla mia ferita. Continuai ad aspettare e a pregare Dio e Mia Madre, la Beata Vergine Maria, perché mi aiutassero. Credo fermamente che le preghiere vennero ascoltate. Infatti, un lungo tempo dopo, vidi un giovane uomo in bicicletta che stava passando di lì sulla strada. Mi sforzai di alzare la voce chiedendogli aiuto, ma egli accelerò il suo pedalare, forse perché consapevole del grande pericolo che poteva esserci nei paraggi. Nonostante il fatto che non si avvicinò a me per darmi l’aiuto di cui necessitavo disperatamente, egli probabilmente andò dritto al primo posto di blocco della polizia per riferire ciò che aveva visto. Infatti, dopo poco di tempo, vidi quattro poliziotti armati venire a piedi, non sulla strada ma attraverso la boscaglia, camminando tra gli arbusti. Con grande sollievo alzai la voce quanto più potessi per attirare la loro attenzione. In pochi secondi si avvicinarono a me. Cercai di raccontargli cosa era accaduto a me e ai miei compagni, come eravamo stati attaccati durante la guida, come gli Shifta si erano presi l’auto e gli altri quattro miei compagni dentro. Non potevo dire nient’altro però riguardo la loro posizione. Diedi ai poliziotti le chiavi di scorta del Landrover che avevo in una piccola tasca dei miei jeans, cosicché potessero guidare la macchina nel caso in cui l’avessero trovata. Nel frattempo rimasero vicino a me, sperando che qualche veicolo passasse di lì. Fu dopo un po’ di tempo che passò un furgone. Gli agenti fermarono il furgone, due di loro si sedettero accanto al conducente tenendomi nel modo più comodo possibile sulle ginocchia, gli altri due in piedi sul retro. Prima che iniziassimo a muoverci, uno degli agenti mi chiese i miei dati di identificazione, che poi annotò; ma io gli diedi anche il numero di telefono della nostra Casa dei Cappuccini a Nairobi e gli chiesi di informarli di quello che era successo. Fui portato al villaggio di Witu, dal quale ero passato con i miei compagni poche ore prima. Ma quel tratto di terra era pieno di buche e non appena passavamo su di ognuna di esse, per me era una grande sofferenza. A Witu fui portato alla clinica del villaggio. Non appena vidi l’infermiera vicino a me, pronta per somministrarmi un’iniezione di morfina per alleviare il mio dolore, la pregai di usare un ago nuovo. Ero consapevole del fatto che l’utilizzo dello stesso ago su molti pazienti poteva essere causa di infezione e contagio, soprattutto di AIDS. Così ella esaudì il mio desiderio, infatti andò in un’altra stanza e – io credo – portò un nuovo ago. Mi fece l’iniezione e da quel momento in poi fui completamente incosciente e quello che accadde dopo lo so solamente grazie ad altre fonti. So che fui portato all’ospedale di Mpeketoni da dove eravamo partiti la mattina presto; ma a quelli che mi stavano accompagnando venne detto che non potevano fare nulla, nemmeno pulire la mia ferita. Cosi si decise di portarmi sull’isola di Lamu, dove un nuovo ospedale era stato appena aperto per servizi sanitari. Nel frattempo, uno dei nostri Padri missionari che lavorava a Mpeketoni da anni fu informato. Quel giorno egli si trovava sull’isola di Lamu per definire alcuni permessi governativi. Non appena venne a sapere che mi stavano portando all’ospedale di Lamu, attraversò il mare e venne sul continente per incontrarmi al molo. Gli abitanti locali vanno e vengono da Lamu su traghetti che partono solo quando sono completamente pieni. Ma quando raggiungemmo il molo, il traghetto era appena partito e ci sarebbe voluto parecchio tempo per il viaggio successivo. Quindi il Padre, che era abituato e conosceva le persone del posto, chiese una canoa o una piccola barca; fui messo in una di queste imbarcazioni ed attraversammo per raggiungere l’isola di Lamu: fu un viaggio che richiese circa quarantacinque minuti. Quando arrivammo all’ospedale fui accudito molto bene e la mia ferita fu pulita per evitare qualsiasi tipo di infezione. Il poliziotto che sul furgone aveva preso i miei dati telefonò alla nostra Casa a Nairobi, come gli avevo detto. I Cappuccini maltesi che si trovavano lì chiamarono l’Organizzazione Flying Doctors perchè venisse a prendermi all’ospedale dell’isola di Lamu. Il servizio dei Flying Doctors è un’organizzazione non governativa che fornisce assistenza d’emergenza in casi difficoltosi tramite aeroplani di piccole dimensioni, sui quali si trova personale qualificato, medicine d’emergenza e altro equipaggiamento medico. Tuttavia, il problema era che questo aeroplano non poteva nemmeno atterrare su Lamu visto che allora non c’era nessuna pista su quella piccola isola. Quindi dovettero trasportarmi di nuovo con una barca verso un’isola più grande chiamata Pate, dove l’aeroplano potesse atterrare e poi portarmi a Nairobi. Ma c’erano altri ostacoli da superare. A Nairobi, i piccoli velivoli vengono gestiti di norma dall’aeroporto di Wilson. Dunque i Cappuccini maltesi in Nairobi vennero lì per darmi il benvenuto. Ma non appena l’aeroplano stava quasi per atterrare, l’elettricità dell’aeroporto di Wilson saltò e così dovemmo atterrare all’aeroporto internazionale di Nairobi. I Fratelli che mi stavano aspettando dovettero quindi viaggiare in auto per arrivare lì, un viaggio che richiese più di mezz’ora. Ma infine, con l’aiuto di Dio e di coloro che erano con me, raggiungemmo l’ospedale di Nairobi. Questo ospedale fu inizialmente gestito dai britannici secondo le leggi coloniali, ma successivamente si sviluppò come impresa privata. Lì ricevetti i migliori trattamenti e fui accudito per bene. Credo che ripresi coscienza nel bel mezzo della notte; ero su un letto d’ospedale e circondato dell’amore e dalla cura dei Cappuccini maltesi e dello staff dell’ospedale. La mia prima preoccupazione fu sapere dove si trovasse Padre Hilary ed i tre volontari che avevano viaggiato con me. Mi raccontarono che gli Shifta gli avevano ordinato di guidare verso la macchia, un’area semi-deserta con piccoli alberi. Poi gli fu detto di scendere dall’auto, portare i propri bagagli e camminare sotto il sole cocente. La sera gli Shifta presero dunque tutti i loro bagagli, inclusi documenti e passaporti e li lasciarono lì abbandonati senza nessuna conoscenza od informazione della loro posizione. Padre Hilary aveva una certa esperienza del posto dato che lavorava da anni come missionario in quella parte della Diocesi di Garissa. Disse ai suoi compagni che non potevano fare altro che passare la notte lì sotto un albero ed aspettare il mattino seguente. Allora controllarono il tramonto e si orientarono di conseguenza. Quindi raccolsero alcuni rami secchi e spine e li posizionarono intorno a dove si trovavano per proteggersi dagli animali selvatici. Bisogna tenere a mente che il luogo dove accadde l’incidente è chiamato in lingua Kiswahili “Lango la Simba”, che significa “la porta dei leoni”. Riconosco davvero quanto il Signore mi fosse vicino specialmente dopo che la pallottola esplose nella mia carne, quando io rimasi cosciente al punto da essere in grado di riconoscere gli agenti di polizia e chiamarli. Altrimenti, non fossi stato in grado di farlo, quelli avrebbero potuto passare oltre senza accorgersi di me ed io sarei stato lasciato lì. Alcuni mesi dopo quest’avventura, dicevo sempre a me stesso e agli altri che se i leoni mi avessero trovato lì non sarebbero stati così felici, perché tra di loro si sarebbero detti: “oggi ci mangiamo solo una povera cena”, alcune costolette, dato che sono sempre stato di bassa statura. Padre Hilary e gli altri passarono la notte in quel modo. Il mattino seguente udirono un auto avvicinarsi. Era un uomo che guidava un trattore, raccogliendo alcuni rami dalla boscaglia da usare come legna da ardere. All’inizio si spaventarono, ma quando il conducente si avvicinò Padre Hilary lo riconobbe: era uno dei nostri cattolici. Tutti salirono dunque sul trattore ed egli li portò alla prima stazione di polizia a Witu. La polizia poi prese il proprio Landrover e li portò tutti e quattro a Mpeketoni. Quand’ ero nell’ospedale di Nairobi feci esperienza di quanto il Signore ci accompagni anche se non siamo del tutto coscienti di tutto quello che succede attorno a noi. Durante i tre giorni che passai all’ospedale trovai tutto il supporto di cui avevo bisogno da parte di diversi preti, religiosi e sorelle e molte altre persone che vennero a trovarmi. Ricordo ancora un Hindu che avevo conosciuto a Nairobi, proprietario di uno studio fotografico dove ero solito andare per sviluppare le mie fotografie. Non appena egli sentì della mia situazione, venne da me con la moglie e mi regalò una bellissima composizione di piccole piante che apprezzai moltissimo. Non appena la notizia dell’incidente raggiunse Malta, il Ministro Provinciale cominciò a fare accordi per avermi a Malta per poter ricevere una migliore assistenza. Ma la provvidenza ci precedette specialmente, perché si dava il caso che in quel tempo il Ministro per la Salute a Malta fosse un vecchio amico dei missionari Cappuccini in Kenya, che egli andava a trovare diverse volte. Quindi senza alcuna esitazione riuscì a farmi trasferire da Nairobi all’ospedale di Middlesex a Londra. Inviò un dottore maltese a Nairobi, il quale aveva trascorso del tempo come volontario in Kenya e che mi accompagnò durante il volo diretto a Londra, insieme con il Ministro Provinciale. Entrambi rimasero con me finché le cose all’ospedale di Middlesex furono sistemate. A Londra trovai tutto l’aiuto necessario per curare la ferita provocata dalla pallottola, poi fui operato al fianco e al femore, che aveva subito seri danni. I medici ripararono anche i danni che la pallottola aveva causato alla mia uretra ma non poterono rimuovere i piccoli frammenti della pallottola per non causare ulteriori danni. Questa cura a Londra richiese circa cinque mesi, tre dei quali spesi nel letto con la faccia rivolta verso l’alto, senza essere in grado di scendere dal letto o girarmi sul fianco. Il letto divenne mio amico, e lo immaginavo come se fosse il palmo della mano di Dio, che mi sorreggeva con molta cura e amore. Anche qui sperimentai la presenza di Dio ed il suo infinito amore per me. Anche se per me quella fu la mia prima visita in assoluto nel Regno Unito, e quindi io non conoscevo nessuno e nessuno conosceva me, facevo però esperienza ogni giorno della presenza e dell’incoraggiamento di qualcuno a fianco del mio letto. Alcuni dei visitatori erano a me completamente sconosciuti. Tuttavia, molto presto, godetti anche dell’amore e della vicinanza dei miei Fratelli e Sorelle che vennero da Malta per stare al mio fianco per alcune settimane e questo mi riempì di coraggio e di goia. L’unica reliquia di quell’incidente che custodisco con amore è la corona del rosario che solevo portare sempre con me in tasca. Quando ero all’ospedale di Lamu, tutto ciò che mi rimaneva erano i vestiti che indossavo. Non appena arrivai lì in ospedale, le infermiere mi diedero vestiti nuovi, dato che i miei erano imbrattati di sangue. Trovarono però la mia corona del rosario in una delle tasche e la diedero al Padre che era lì presente. Più tardi, quando questo Padre missionario venne a visitare Malta per le sue periodiche vacanze, egli mi consegnò il rosario. Per me questo fu una grandissima e gradita sorpresa. Qualche tempo dopo, regalai quel rosario ad una suora di clausura delle Clarisse Povere nel suo monastero a Malta. Prima che la suora si unisse al convento, ella fece un’esperienza missionaria per due anni nella nostra Missione di Garissa, durante il periodo che lavoravo lì. Quando le diedi la corona del rosario, le chiesi di pregare incessantemente per la Chiesa Missionaria. Ho incontrato questa suora alcuni mesi fa e mi ha detto di nuovo quanto ancora oggi custodisca gelosamente quella corona del rosario, pregando ogni giorno per la Chiesa Missionaria ed i missionari. Quando tornai a Malta da Londra, dovetti continuare a sottopormi ad ulteriori cure e non potei tornare in Kenya. Ma quando cominciai a riprendermi, i miei superiori mi offrirono alcuni ministeri ed un limitato apostolato. Più tardi fui nominato Segretario Provinciale del nostro Ufficio Missionario di Malta. Ciò mi diede l’opportunità di mantenere i contatti con i miei fratelli missionari. Allo stesso tempo inoltre mi dedicavo all’animazione missionaria a Malta. Quando recuperai le forze necessarie ebbi anche l’opportunità di visitare i missionari maltesi in Kenya e le altre persone nel luogo dove avevo lavorato alcuni anni prima. Dopo sei anni in quell’ufficio fui eletto per servire come Ministro Provinciale a Malta. Durante quei sei anni ebbi  diverse occasioni per visitare la nostra Missione in Kenya che in quel tempo era diventata un Vice-provincia. Poi, quando terminai il mio mandato di due anni, chiesi al mio successore , il neo-eletto Ministro Provinciale, di permettermi di tornare in Kenya come missionario. La mia richiesta fu accolta e nel 2010 mi ritrovai a lavorare per la seconda volta in Kenya, nello stesso posto a Garissa. Questa volta il Direttore Paul Darmanin, Vescovo di Garissa, mi chiese di essere il suo aiutante più stretto e mi nominò Vicario Generale della sua diocesi. Il 29 Giugno 2012, Solennità dei Santi Pietro e Paolo, sua Santità Papa Benedetto XVI mi nominò Vescovo Coadiutore della Diocesi di Garissa. Tre mesi più tardi, il 29 Settembre, festa dell’Arcangelo San Michele, San Gabriele e San Raffaele, io fui ordinato vescovo nella Co-Cattedrale di San Giovanni a Malta, dato che sarebbe stato molto pericoloso farlo nella Cattedrale di Garissa, a causa dei numerosi attacchi del gruppo terroristico Al-Shabaab, che nello stesso giorno della mia nomina di vescovo lanciarono granate alla cattedrale durante la messa domenicale, ferendo alcuni cristiani. Quando il vescovo Paul Darmanin raggiunse il suo 75simo compleanno, egli scrisse la sua lettera di dimissioni secondo la Legge Canonica. Il giorno 8 Dicembre 2015, Solennità dell’ Immacolata Concezione della Beata Vergine Maria, mi fu affidata la piena responsabilità della Diocesi di Garissa. Qui vorrei ringraziare con tutto il cuore il Vescovo Emerito per il suo lungo ed instancabile servizio di trentadue anni come primo vescovo di Garissa e per tutto l’aiuto ed il supporto che mi ha dato. Ma soprattutto, vorrei esprimere la mia più profonda gratitudine a Dio, che mi ha dimostrato come Egli mi parli attraverso cose e situazione che all’ apparenza possono sembrare strane, come il particolare dono di quella pallottola del 18 Ottobre 1993. Porto ancora i frammenti di essa nel mio corpo, come fossero un segno che mi ricorda quanto Dio sia sempre vicino a noi e ci ami nei più diversi e talvolta strani modi. Voglio rendere grazie come figlio anche a mia Madre, la Beata Vergine Maria, che è sempre vicino a me e sotto la sua continua protezione affido questa Diocesi di Garissa, mentre non smetterò mai di ripetere alla gente le parole che ella pronunciò alla festa delle nozze di Cana: “ Fate tutto quello che Egli vi dirà”. Questo è anche il motto che ho scelto il giorno della mia Ordinazione Episcopale.

JOE
Siamo arrivati a Garissa, siamo ospiti dal vescovo. Dopo una doccia ristoratrice e dopo aver celebrato la messa andiamo a prendere una tazza di caffè dalle suore che ci accolgono con grande ospitalità. Proprio in questa casa, davanti ad una tazza di caffè bollente con latte vi è per me la sorpresa del viaggio e si chiama vescovo Joe. Lo avevo già incontrato, conoscevo molto di lui, sul fatto che proprio in questa terra era stato ferito e che questa terra di Africa aveva bevuto abbondate sangue suo, ma non avevo mai avuto il coraggio di fare a lui una domanda diretta. Forse proprio la sua cordiale ospitalità e la sua grande umiltà questa volta permettono una domanda personale. Siamo seduti su comode poltrone i ragazzi sono vicini a me, stanchi ma molto curiosi, quella bellissima curiosità africana che accende gli occhi. Sorseggio il caffè ripongo la tazza fumante nel piattino e lo guardo, lui sorride. Eccellenza, scusami se sono diretto, da tanto tempo ho una domanda da farti, è una domanda diretta e semplice ma per me importante. Dimmi don Gigi! Ci racconti come sei stato ferito? Il vescovo sorride e si tocca l’ anca destra… Quando cammina, si avverte ancora un leggero fievole zoppicamento. È una storia lunga… La vuoi proprio sapere? Gli occhi di Jimmy e Doreen si fanno ancora più curiosi, i miei lo sono già da quando siamo scesi dal fuoristrada a Garissa. Il buon vescovo inizia con voce calma il racconto. Io e padre Hillary con tre volontari maltesi eravamo nella jeep tra Mpeketoni e Malindi, avevamo superato il checkpoint di Witu i militari ci lasciarono passare,stavamo percorrendo così la strada per giungere alla parrocchia di Wema. Era una giornata di pioggia e siamo partiti la mattina presto, io ero alla guida dovevo fare molta attenzione per non scivolare, le strade da queste parti non sono belle vero? Tutti tre ridiamo, divertiti per il furbo ricordo del vescovo del nostro incidente nella brutta strada . Hai proprio ragione e noi ne sappiamo qualche cosa… Jimmy risponde divertito si, si don Gigi! Il vescovo prosegue: dovevamo fare molti chilometri e incontrare diverse persone, parlavamo proprio del nostro lavoro pastorale, quando dal bosco escono alcuni uomini, quattro o forse cinque. Sono armati ed hanno dei cinturoni con terribili grandi proiettili. Ci intimano di fermarci. Freno di colpo e qui succede l’ imprevedibile, la pesante macchina slitta e non si ferma proprio come è successo a voi, la reazione degli uomini di Shifta è violenta ed immediata aprono il fuoco. Sono pallottole che esplodono quando centrano il bersaglio. Uno di questi dannati proiettili colpisce la portiera dalla mia parte di guida, perchè volevano fermarci. La pallottola centra la portiera, l’attraversa perchè il bandito era a distanza ravvicinata e il colpo va ad esplodere nella mia anca mandandola in frantumi. Un dolore incredibile mi pervade il corpo e la gamba destra cade a penzoloni, non riesco più a muoverla. Se il proiettile avesse colpito l’ arteria femorale sarei morto dissanguato nel giro di pochi minuti, oggi ancora ho in pancia pezzi di quel proiettile. La prima parte del racconto è una forte emozione, un pugno nello stomaco. Jimmy e Doreen si fanno sempre più attenti, anche le suore ascoltano con grande interesse la storia che non conoscevano in tutti questi dettagli. Il vescovo Joe continua. Vicino a me vi è padre Hillary, sono spaventato dal sangue che esce e sento un forte dolore. Padre Hillary, aiuto il sangue esce dalla mia anca! Gli islamisti di Shifta aprono le portiere e ci intimano di scendere, io non riesco a muovere la gamba il sedile è impregnato del mio sangue. Padre Hillary e gli altri  tre amici vengono ad aiutarmi a scendere dall’auto poi  viene intimato loro di risalire in auto e di allontanarsi e di loro non so più nulla. Gli Shifta mi  sollevano, provo un dolore incredibile e mi depongono vicino ad un cespuglio ai margini della strada. Appena sdraiato questi  uomini  si avvicinano con il fucile puntato verso di me. Temo che sia proprio giunta la mia ora, e disperato grido: per favore non lo fate! Incuranti delle mie ferite, mi tolgono scarpe, orologio ed occhiali… Io rimango da solo sul margine della strada e a fatica mi trascino verso il centro della pista nella speranza che qualcuno possa passare… Piove e sono tutto bagnato e infangato. Irriconoscibile per il fango che ho addosso misto con il sangue che continuo a perdere…. passa un uomo con la bicicletta, grido aiuto, ma mi guarda e passa oltre. La paura di essere coinvolto con la mia storia lo spaventa? Semplicemente non ha tempo? Forse non mi ha riconosciuto? Sono un sacerdote cattolico, è un musulmano? Mille domande mi bruciano il cervello, mentre tento di addomesticare il dolore e la disperazione che provo con mille sotterfugi. Il tempo passa molto lentamente per me ferito, sporco, pieno di dolore e devastato nella mia mente dall’ accaduto. Ma l’ uomo in bicicletta qualche cosa l’ ha fatta. Passa vicino ad un posto di polizia ed avvisa che vi è un ferito. Poco dopo a piedi giungono alcuni militari che evidentemente mi stanno cercando. Finalmente un veicolo  che è usato per il mantenimento delle piste passa. I militari mi caricano sul veicolo e mi portano al piccolo ospedale di Witu. Fino a questo punto ero cosciente. A Witu, prima di pulire la mia ferita l’ infermiera mi da una pesante dose di morfina è così perdo i sensi. Rimaniamo tutti a bocca aperta, ci troviamo davanti ad un gigante e non ce ne siamo accorti. Ma nella chiesa succede sempre così chi è gigante non lo vedi! Joe brilla per la sua umanità, per la capacità di scomparire, i miei due giovani si innamorano subito di lui. Quest’ uomo ha amato così tanto questa terra da dare il suo sangue. L’ assetata terra di Africa ha bevuto con avidità il suo sangue e lui così è divenuto africano e l’ Africa è divenuta più cristiana. Quanta sete di sangue cristiano ha il Kenya, proprio qui a Garissa 148 giovani cristiani hanno regalato all’ Africa il loro sangue vittime non si shifta, ma di un altro gruppo fanatico islamico di nome Al Shabab. E a Dadaab è molto rischioso essere cristiani! il vescovo Joe continua il suo bel racconto. Da Witu mi hanno trasportato in stato di incoscienza a Lamu, ad un ospedale più grande presente sul’ isola. Arrivati a Lamu, il primo battello e’ gia’ partito perché è pieno di passeggeri. ( Li i battelli partono solo quanto sono pieni di persone)Quindi non sapendo quando sarebbe partito il secondo battello in Padre missionario che mi accompagnava decide di  affittare una piccola canoa. Sull’ isola capiscono subito che la ferita è grave, il femore è spappolato e vi è grosso rischio di infezione per i pezzi di proiettile che ho in pancia. Decidono di trasportami in aereo a Nairobi. Ma la sorte sembra essere buia per me in quel giorno piovoso. L’ aeroporto dove eravamo diretti a Nairobi subisce un calo elettrico e così ci dirottano al Kenyatta airport. I padre cappuccini si spostano così da un aereoporto all’ altro. Rimango a Nairobi 2 settimane e subisco un primo intervento che tenta di pulire ed asportare per quanto è possibile  i frammenti di proiettile che ho in corpo. Poi grazie al Ministro della Salute Maltese mi trasferiscono a Londra dove giungo per la prima volta. A Londra subisco un secondo e lungo intervento di ricostruzione e poi 2 mesi nel letto senza muovermi, ne per andare al bagno ne per igiene personale che veniva fatta tutta a letto. L’ uretra però viene compromessa e iniziano le infezioni e le cure di antibiotici…. Fermo il vescovo ed esclamo. Ma come hai fatto a sopportare questo incredibile calvario? Quanto dolore e quanta sofferenza! Il Vescovo mi guarda e con calma mi dice: Il Signore mi ha dato una seconda vita è per rinascere ho dovuto molto soffrire. Alla mia mente viene il ricordo dei sette anni di sofferenza acuta di Santina e la sua rinascita alla vita di disabile e nelle orecchie del cuore ascolto la frase di Paolo: Quando sono debole è allora che sono forte! E’ proprio vero la forza di questo uomo per essere vescovo qui a Garissa, la qualità del suo episcopato per una diocesi tanto speciale è stata dettata dalla sua ferita all’ anca. Per essere vescovo di martiri cristiani che a Garissa hanno dato il loro sangue Gesù ha chiesto a lui di prepararsi dando il suo sangue e lui di buon grado ha accettato. Lo interrogo! Ma Monsignore sei riuscito a perdonare? Fin dal primo momento in cui mi trovavo sul bordo di quella pista ferito, mai ho provato risentimento per quell’ uomo, ma grande compassione. Non voglio essere trasformato in un martire, poteva capitare a te don Gigi e forse ti saresti comportato meglio di me. È stato il caso, non ho cercato io questa ferita… È come hai visto non avevo nessuna intenzione di morire. Per rimettermi in piedi e ritornare ad una vita diciamo normale ho impiegato due anni duri di fisioterapia e di medicine e controlli…. E poi? Ma come cavolo ti è saltato in mente di tornare qui? Io sarei fuggito dal Kenya e dall’ Africa per sempre! Don Gigi è stato per me naturale tornare qui, non ho avuto alcun pensiero di fare altre cose. Questa è divenuta la mia terra e così sono tornato! Alcuni anni dopo sono stato fatto vescovo e sono felice di essere vescovo ferito per una terra ferita, dove la qualità di vescovo lascia il posto alla qualità di essere un uomo ferito prima di tutto e divider così con i miei cristiani sofferenza e dolore. Non voglio trasformarmi in un martire, ma semplicemente sono un uomo ferito, come ferita e torturata è la mia gente a Garissa o a Dadaab. E sono felice che tu sia qui, sono contento che questa mia esperienza possa aiutare i giovani a crescere, ma deve rimanere semplice e spontanea, non deve essere celebrazione mia, ma di questa terra, di questa chiesa sofferente e di Gesù Cristo, l’unico che dobbiamo imitare. Vescovo Joe, ultima domanda: E di padre Hillary, il nostro amico cosa è stato? …. Il vescovo sorride, erano stati condotti con l’auto in una zona semi-deserta poi fu loro ordinato di abbandonare l’auto e cosi’ camminarono tutto il giorno e passarono la notte all’ aperto con la paura di serpenti, iene e leoni e recitando il rosario. Trovarono un buon samaritano un uomo cattolico che guidava il suo trattore che li porto a casa sani e salvi. Ma domandalo a lui a Msababa domani quando lo incontrerai. Abbraccio forte Joe, Jimmy e Doreen fanno la stessa cosa, sono commosso, mai credevo di incontrare questa incredibile storia, sono venuto a Dadaab per incontrare la sofferenza e la porta per entrare a Dadaab si chiama Vescovo Joe.

 

DADAAB
Sono in aereo, nel viaggio di ritorno da Nairobi ad Amsterdam, sperando di non essere posizionato su un volo domani per tornare in Italia perchè oggi mi hanno cancellato il volto Amsterdam Roma. Abbiamo da poco passato Kartoum ed il ricordo del Sudan diventa forte ripensando l’esperienza di Dadaab. Dadaab è il più grande campo profughi del mondo e conta oggi 360.000 persone, un paio di anni fa ne contava molte di più. Dallo scorso anno avevo forte forte il desiderio di giungere a questo enorme campo e lo avevo desiderato molto, grazie al vescovo Joe questo è stato possibile. Il campo profughi si trova a circa 80 chilometri dal confine con la Somalia ed ad un centinaio da Garissa. Se immaginavo la vastità del campo che il governo keniota vuole chiudere, non immaginavo assolutamente l’abisso di dolore che esso costituisce. Nel campo abbiamo incontrato profughi della vicina Somalia, del Sudan, del Sud Sudan e dell’Uganda, ma sono molte di più le nazioni dalle quali questa gente scappa. Abbiamo dovuto fare una scelta di alcune storie, forse neppure tra le più orribili nel panorama del” orrore che qui si vive. Sono tutte videoregistrate e costituiscono una forte prova di quello che abbiamo visto e che testimoniamo. Il campo raccoglie vittime di torture, di stupri di massa, di mutilazioni genitali femminili dal carattere tribale, raccoglie persone che hanno gli occhi sbarrati dal dolore, che nel loro corpo portano orribili segni di tortura: tagliati, bruciati, con le ossa rotte in più parti, con cicatrici sulle mani, nei fianchi, sulla schiena nelle gambe, in pancia. Un panorama dell’orrore incredibile. Ogni volta che visito un luogo di dolore penso che sia il peggiore del mondo, poi in un seguente viaggio scopro un orrore più grande! Così era avvenuto in Messico dal quale ero tornato con angosce profonde e l’impossibilità di dormire per una settimana… Ed ora qui a Dadaab le storie raccontante fanno impallidire dalla paura il mondo. In questa realtà di terrore dovuta alla guerra presente nei paesi citati, si aggiunge un altro fatto di grande dolore. Le persecuzioni si fanno particolarmente forti nei confronti dei cristiani che sono visti con odio dal mondo musulmano. E così essere cristiano a Dadaab significa essere doppiamente perseguitato, a motivo della guerra, o delle guerre tribali e a motivo dell’ odio religioso. Se il campo profughi di Dadaab è costituito secondo una recente stima da 360.000 persone, i cristiani sono solo il 9 per cento, il che significa circa 3500 persone. Le storie che abbiamo scelto di raccontare sono quelle di alcuni cristiani presenti a Dadaab. Diventa così difficile per un cristiano muoversi per i 5 campi in cui l’ immenso agglomerato è diviso. Si rischia la derisione, lo scherno e poi la vita. Ad aggravare la situazione descritta vi è poi il fatto di una grande carestia che colpisce proprio questa area del Kenya, manca acqua, mancano alimenti e la situazione sprofonda in una forma di depressione nera che si può palpare con le mani. A Dadaab esistono due piccole comunità cattoliche, la prima è quella di San Kizito, mentre la seconda si trova in un piccolo villaggio vicino ed ha nome San pietro e paolo in Hagadera. Attorno a questa massa enorme di disperati ruota l’ immensa macchina dell’ONU con gli aiuti umanitari e con le diverse agenzie umanitarie: un grandissimo numero di persone lavora li, forse in modo anche problematico visto le enormi macchine dalle cilindrate formidabili a prova di proiettili. Con ognuna di quelle auto potremmo fare dieci dei nostri progetti in quel campo! Abitazioni con ogni comfort ed aria condizionata, mentre fuori da quei compound il nulla e le lacrime. Innumerevoli sono le sigle umanitarie UNCHR, FAO, Medici senza Frontiere, Save ten Children, sono presenti per aiutare, ma anche questo purtroppo è un enorme busines. Era da diverse volte che il vescovo Joe tentava di andare a Daaab a celebrare la messa e finalmente per un serie di fortuiti motivi vi era riuscito. Padre John è il sacerdote diocesano di Garissa che presta servizio una volta al mese alla comunità cristiana. È domenica mattina, 19 febbraio e molto presto partiamo per il campo. Sono due ore di strada orribile. In una macchina vi è il vescovo con Doreen ed io e brother John siamo seduti avanti, la seconda macchina invece è costituita da JImmy, padre John è da due militari di scorta senza i quali i permessi per entrare al campo sarebbero stati impossibili da ottenere. Lasciamo il nostro fuoristrada al sicuro nell’ episcopio, dove abbiamo trascorso la notte in un torrido caldo, in stanze povere, semplici ma soprattutto pulitissime. Alle nostre spalle lasciamo Garissa, alla nostra destra vediamo la triste università del massacro del 2 aprile 2015 quando 148 ragazzi cristiani furono torturati ed uccisi per opera di Al Shabab. Molti credono che proprio a Dadaab sia stato organizzato il tragico gesto da parte degli islamisti folli e solo arrivando al campo mi rendo conto del perchè. La pista è bruttissima, peggio di quella da noi percorsa il giorno prima. Polvere bianca, gialla, cammelli, capre cespugli bruciati dal sole, serpenti e iene questo è il paesaggio che attraversiamo. Finalmente dopo il percorso duro, ecco spuntare l’ enorme campo che si suddivide in cinque differenti zone chiamate IFO e al cui centro vi è il quartier generale delle Nazioni Unite. Proprio lì siamo diretti. La messa verrà celebrata per ragioni di sicurezza in quel campus dell’ ONU. Agli ingressi controllano i documenti che avevamo dato in precedenza e ci rilasciano un pass. sono venuti molti rifugiati dai diversi campi e così possiamo avere un’idea della vita in questi enormi quartieri. La presenza del vescovo è una grande festa e ci sono undici bambini dell’ età da zero a tre anni che riceveranno il battesimo. La lingua usata non è più il kisuaili ma inglese perchè i rifugiati parlano differenti lingue. Mi chiedono di ascoltare le confessioni e nasce così nel mio cuore una esperienza bellissima, che mi fa sentire prete e che mi dona una profonda pace ed una grande gioia. La messa inizia ed è una festa di colori e di danze che sembra essere in aperto contrasto con il dramma che la gente vive a Dadaab. Il vescovo svolge una omelia bellissima e poi ci sono i battesimi. Concelebro alla sua destra. Alla sinistra vi è padre Joseph. fotografo ufficiale è il nostro Jimmy. Tre ore e quaranta di Messa, il caldo è molto forte, ma il tempo passa velocemente. Il rappresentante della comunità ecclesiale alla fine della eucaristia formula precise richieste al Vescovo, tra di esse quella di avere un Lugo di culto all’ interno dell UNCHR, che vorremmo sovvenzionare, quella di inviare un sacerdote due volte nel mese a celebrare la messa e quella di avere un prete a tempo pieno per Dadaab. Il vescovo ascolta con molta attenzione e sorride… La messa finisce con una lunga e solenne danza. E poi ? E poi lo spazio proprio solo e tutto per loro! Mentre Il vescovo e Doreen prendono parte al pranzo ufficiale Jimmy con molta gioia mi segue. Vogliamo incontrare la gente. Ci mischiamo con loro, scattiamo fotografie e soprattutto videoregistriamo tuttoooo. Videoregistriamo le storie violente e dure che tra poco racconteremo, queste storie ci tolgono l’appetito, ma ci riempiono il cuore. Molti di loro sono profughi dal Sud-Sudan. In questi giorni in un Agenzia Fides  mons. Erkolano Lodu Tombe, vescovo di Yei, si soffermasulla drammatica situazione del Sud Sudan, da dove negli ultimi tre mesi sono fuggite oltre 100.000 persone. Fonti di stampa riferiscono che gli sfollati, molti arrivati attraverso l’Uganda qui a Dadaab, raccontano di torture e di abusi commessi dai soldati. L’Onu recentemente ha denunciato che gli stupri, le uccisioni di civili e la paura di essere arrestati sono tra le principali ragioni che spingono migliaia di persone a fuggire dal Paese. Si tratta dell’emergenza umanitaria più grave di tutta l’Africa.I l Sud Sudan, oltre ad essere dilaniato dalla guerra civile scoppiata nel 2013 che ha provocato migliaia di morti, è colpito da una grave carestia. Il conflitto ha pregiudicato i raccolti e la produzione agricola. Il Paese, dichiarato indipendente nel 2011, è lacerato anche da una gravissima crisi economica. Il tasso di inflazione ha superato l’800% e le popolazioni urbane devono fare i conti con massicci aumenti dei prezzi dei prodotti alimentari di base. Si stima che sono oltre 4,9 milioni degli 11 milioni di abitanti ad aver bisogno, immediatamente, di aiuti umanitari. Lo scorso 20 febbraio il governo ha dichiarato lo stato di carestia in varie zone del Paese.Nel recente messaggio pastorale, rivolto alla popolazione, i vescovi del Sud Sudan sottolineano che il Sud Sudan è “in preda ad una crisi umanitaria, alla carestia, all’insicurezza e al disastro economico”. “Non c’è dubbio – aggiungono i presuli – che la carestia è stata causata dall’uomo. È vero che la siccità ha colpito diverse parti del Paese, ma la mancanza di cibo è dovuta all’insicurezza e alla cattiva gestione economica”. Nel loro messaggio, i vescovi hanno anche ribadito che “la Chiesa non è pro o contro qualcuno, che sia il governo o l’opposizione”.

LE TESTIMONIANZE

Gladis
Per la santa Messa nel compound sicuro delle Nazioni unite nel centro del grande complesso di Dadaab sono stati portati con autobus, dai 5 diversi campi di rifugiati, rappresentati significativi delle diverse componenti nazionali ed etniche: sono persone che vengono da storie di terrore. Sono scappati dalla guerra presente nel loro Paese, si sono rifugiati a Dadaab, ma a Dadaab vivono autentiche storie di persecuzioni perché cristiani. Dopo la Messa abbiamo avuto la possibilità di incontrare tanti di loro e di raccogliere alcune loro significative testimonianze. Ecco la prima. Jimmy fedelmente riprende la scena.E’ una donna di 42 anni, si chiama Gladis, veste un bellissimo abito colorato. Uno sgargiante vestito arancione che tende sul rosso e porta un velo di color verde. Si vede subito che è sudanese, la pelle color ebano e i tratti molto gentili nascondono una profonda sofferenza.
Gladis mi vuoi raccontare la tua storia?
Sono arrivata a Dadaab nel 1995. Sono giunta qui perché in Sud Sudan vi era una feroce persecuzione dei cattolici. Quando ero studente i musulmani ci imponevano prima di entrare in classe la preghiera coranica. Io mi rifiutai per questo motivo mi misero in prigione e mi torturarono per sette giorni. In quei terribili giorni venivano a prendermi in cella e mi portavano in un ufficio della prigione. Mi ponevano davanti un foglio nel quale dovevo sottoscrivere l’abiura al cristianesimo. Se avessi firmato mi avrebbero immediatamente rilasciata. Io non volevo rifiutare la mia fede e così mi riportavano in carcere.
Gladis hai detto che ti torturavano. Ci puoi dire di più?
La donna si commuove al ricordo, vedo i suoi occhi riempirsi di lacrime. Inghiotte amaro e mi risponde: “Quello che mi è accaduto è molto brutto. Mi hanno stuprato diverse volte e mi hanno picchiato a sangue. I soldati facevano questo ogni giorno.
Quanto tempo sei stata in prigione? Ti chiedevano di convertirti all’islam?
Sono stata in prigione per 15 giorni ed ogni giorno chiedevano a me di convertirmi, come prima ti dicevo. Ma mi sono sempre rifiutata di rinnegare la mia fede. Per questo mi hanno torturato e stuprato! Mi dicevano, se tu diventi musulmana sei libera subito, altrimenti rimarrai qui finché non ti convertirai. Non ci davano da mangiare. Il cibo che doveva bastare per un giorno era meno di una tazza: mais e fagioli. Mi picchiavano a sangue, sulla mia schiena, padre, e sulle mie spalle puoi vedere i segni della tortura.
Dicendo così Gladis si toglie lentamente il velo verde e abbassa il vestito sulle spalle. Appaiono così segni evidenti di bruciatura, tagli. Un conto è sentire parlare di tortura, ma quando vedi i segni sul corpo delle vittime, ti prende il cervello! Sembra che la tortura, attraverso quei segni evidenti ti entri nella testa e nel cuore. Provo venerazione per quella donna e per quei segni di martirio che per il nome di Gesù porta impressi nella carne e mi sento meschino, povero, totalmente inadeguato alla mia fede. Ma se mi torturassero, io cosa farei? Avrei il coraggio e la forza di resistere come ha fatto Gladis? La donna si è ricomposta. La guardo con grande dolcezza.
Meglio che cambio argomento perché vedo che la giovane donna sta soffrendo molto. Formulo una nuova domanda: Gladis, ma ora perché non torni nel tuo Paese?
Oggi ancora è impossibile per me ritornare in Sud Sudan. In verità nel 2005, le cose sembrarono cambiare e ci chiesero di tornare in Sud Sudan, allora era Sudan. Ma la vita nel mio Paese non era possibile per i cristiani anche a motivo di lotte tribali, rischiavo e rischio di essere uccisa, torturata e stuprata nuovamente. Ho sofferto molto. Mio padre fu ucciso, mia madre e mia sorella non so dove siano. Mio marito è scappato e mi ha lasciata sola.
Qui a Dadaab Refugee Camp come è la tua vita?
La mia vita qui è terribile, per vivere raccolgo scarti di plastica e rifiuti che tendo di rivendere. Devo mantenere da sola cinque bambini. Qualcuno mi ha suggerito di ritornare al mio Paese, ma il ricordo di quello che mi è successo me lo impedisce… sono stata stuprata. E qui a Dadaab è molto pericoloso essere cristiani, talvolta non posso andare alla Messa perché non è sicuro. Essere cristiani a Dadaab è molto più difficile che esserlo a Garissa e devo essere prudente! Ogni giorno la paura mi accompagna.
Il tempo è breve. Vogliamo raccogliere altre testimonianze e così mi appresto a salutare la giovane donna che porta nel suo corpo i segni della sua testimonianza cristiana. Provo ammirazione. Capisco quanto orrenda sia la tortura e quanto rovini la vita. Qui a Dadaab nella clinica da campo che fa una enorme opera di Pronto soccorso sono sempre pieni due reparti: quello di maternità, per le donne che vanno a partorire e quello più triste di psichiatria. Le persone che sono state torturate, stuprate, le donne che hanno avuto orrende mutilazioni genitali hanno dei danni terribili nel loro cervello e soprattutto nel loro cuore. E’ un autentico inferno. E Lei la povera Gladis, con i suoi segni di tortura appare a me come un angelo, appare nella sua enorme statura di testimone. Una donna così deve essere onorata, deve essere rispettata. Mi inginocchio sono davvero davanti a Gesù ed alle sue piaghe. Le bacio lentamente e devotamente i piedi… e non mi vergono di farlo ed il video lo mostra. E poi l’abbraccio, silenziosamente dandole una carezza ed un bacio. Di fronte all’orrore il silenzio vale più di mille parole.

Antoine
Il ragazzo è molto alto, magro, con la fronte segnata da un tatuaggio tribale fatto a linee orizzontali. Indossa una maglietta di color rosso e sopra di essa fa sfoggio di una corona del rosario azzurra a lui donata dal vescovo durante la messa. Ha solo ventisei anni. Anche lui viene dal Sud Sudan.
Antoine per quale motivo tu ti trovi qui a Dadaab?
Quando io vivevo in Sud Sudan mio padre uccise un uomo di un clan rivale. Questo scatena nella mia terra la vendetta sanguinaria. Se tu uccidi uno, anche tu devi essere ucciso. Lo chiamarono al telefono e poi lo uccisero. Ma la vendetta non si esaurisce con l’uccisione del colpevole, ma si devono uccidere anche i figli.
Cosa è successo?
Quegli uomini, appartenenti ad un altro clan, vennero al villaggio per uccidere me e mio fratello! Noi siamo riusciti a fuggire. Un modo per proteggersi dalla vendetta tribale è quello di arruolarsi nell’esercito e ricevere così sicurezza. Mio fratello era maggiorenne e così si è arruolato nell’esercito. Io invece no: ero troppo piccolo. Sono fuggito a Kakuma, il campo profughi nel nord del Kenya, non lontano dal confine con il Sud Sudan.
Dunque prima sei giunto al campo profughi di Kakuma?
Sì, ma è stato inutile perché quegli uomini mi hanno seguito in quel campo. Pensa Padre che ho dovuto perfino cambiare il mio nome per far perdere le mie tracce. Infatti rimasero per un po’ di tempo confusi. Ma quando scoprirono che ero presente nel campo, si misero di nuovo a cercarmi…
Cosa hai fatto allora?
Ho lasciato Kakuma e sono venuto a Dadaab. Qui a Dadaab non mi hanno più seguito. Ma sono nati problemi con i musulmani qui.
Cosa ti è successo con i musulmani?
Padre, io sono fiero di essere cattolico. Giunto al campo di Dadaab ho iniziato a fare il catechista ed a parlare del vangelo in un area fortemente islamica di Dadaab. Tutto il campo è fortemente islamico, anzi islamista. Quando se ne sono accorti mi hanno detto: “Perché tu predichi il cristianesimo qui?” E furiosi presero la decisione di uccidermi. Il 9 dicembre 2015 ho subito un attentato terroristico e mi hanno portato in ospedale in fin di vita.
In che modo hanno tentato di ucciderti? Ti hanno sparato?
No Padre, mi hanno attaccato con una motocicletta! Io sono un insegnante e stavo recandomi alla scuola, mi hanno seguito e mi hanno investito e poi sono passati sul mio corpo per tre volte. Padre mi hanno rotto le ossa e causato ferite ed escoriazioni… pensavo di morire. Mi hanno spezzato così una gamba ed un braccio e la mano è stata offesa, guarda che segni porto ancora sulla mano sinistra. Sono i punti che i chirurghi hanno messo per suturare la ferita provocata. Mi hanno lasciato mezzo morto sulla strada. Non capivo più nulla, non sapevo cosa mi era successo perché persi coscienza. Fortunatamente alcuni cristiani sono passati di lì e mi hanno soccorso, mi hanno portato all’ospedale e miracolosamente mi sono salvato.
Ora sono disperato perché non posso tornare in Sud Sudan, non possono ritornare al campo profughi di Kakuma al nord, ma non posso neppure vivere a Dadaab, la mia vita è ogni giorno in pericolo qui. Vorrei emigrare…
Tutto questo ti è successo perché ti sei professato cristiano, solo per questo? Come è la vita dei cristiani in questo enorme campo profughi di Dadaab? Il diritto alla libertà di culto è garantito?Don gigi siamo in un area completamente musulmana, ma un islam feroce ed integralista, tutta questa regione del Kenya e della Somalia è infesta da Al Shabab, qualcuno pensa che qui abbiamo il loro quartier generale, che qui abbiamo programmato l’uccisione dei 148 ragazzi studenti all’Università di Garissa. Qui dichiararti apertamente cristiano equivale ad una sicura condanna a morte! Se qui si conosce che tu predichi la Parola di Dio e la professi ti mettono a morte. Ti devono uccidere…
Dunque se io da solo mi muovo in questo sterminato campo profughi di Dadaab è pericoloso per me?
Non farlo mai! Per te è pericoloso per molti più motivi. Sei bianco e dunque vuol dire subito in questa immane disperazione che sei ricco: il colore della tua pelle bianca ha un valore, ti potrebbero aggredire od uccidere solo per rubarti orologio, scarpe, cintura, la bottiglietta di acqua con la siccità che proviamo. In secondo luogo se sei bianco sei anche cristiano e questo crea un furore religioso che acceca gli occhi e porta al volerti ammazzare subito, pensando di fare una cosa santa e giusta. Padre forse non hai capito che sei giunto… all’inferno! Verrà l’ora nella quale vi uccideranno ed uccidendovi penseranno di rendere gloria a Dio. (Gv 16,2).
Antoine mi guarda, i suoi occhi portano ancora i segni dello spavento di quell’assalto sulla strada della scuola, vorrebbe continuare a raccontare. Questa gente disperata, ha prima di tutto un grande desiderio: quello di raccontare. Un unico, forte e determinato desiderio di voler condividere il proprio dolore pervade la gente disperata di Dadaab. Il giovane mi prende per il braccio e con dolce insistenza continua il suo discorso, che per motivo di tempo stavo concludendo. “Padre, ricordati di me: non dimenticare il nostro incontro spente le riprese video. Portami con te nel tuo ricordo e nella tua preghiera… Ricordati di noi disperati”. Mi fermo, lo guardo, il ragazzo porta un braccialetto colorato di nessun valore, mi colpisce la composizione dei colori. Bastano alcuni secondi del mio sguardo sul braccialetto e lui che fa? Se lo toglie, il suo polso è fine. Lo sfila facilmente. Mi prende il polso sinistro e con calma e forza costringe il bracciale ad entrare nel mio polso più grosso del suo. Si forza il giovane e io lo guardo compiaciuto… lascio fare. E’ ostinato, il mio polso è più grande del suo! Ma lui con calma e forza ci riesce e il suo successo è coronato da un bel sorriso dei suoi denti bianchi sulla pelle nera. “Don gigi ho fatto fatica a mettertelo, ma ora anche tu farai fatica a levarlo, così non ti scordi di me. Hai capito?” Quel gesto semplice e genuino mi colpisce. “Questo braccialetto colorato era con me quando mi hanno investito tre volte con la moto: portalo in Italia e quando lo guarderai ricordati quanto è pericoloso essere cristiani a Dadaab!” Il sole è forte, il ragazzo sembra così felice del suo regalo. Tocco il braccialetto e rispondo: “Ma che grande regalo mi hai fatto Antonie! Sono onorato di questo meraviglioso dono. Certo che lo porterò con me, forse non potrò tenerlo sempre al mio polso, ma sai dove lo metterò? In un posto per me importante: nella mia Bibbia. Lo metterò nella copertina di cuoio della mia Bibbia: lì è il posto giusto e sicuro! Tu sei stato torturato dagli islamisti perché predicavi il vangelo. Questo braccialetto è una reliquia sacra per me. Lo metterò lì, perché sempre mi ricordi che per il Vangelo a Dadaab vi è gente che rischia la vita” Abbraccio forte Antoine. Lui si commuove. Lentamente faccio un segno di croce sulla sua fronte alta e lentamente gli dico: “Antoine Dio ti benedica e ti dia la forza ed il coraggio nel vivere la tua fede in questo luogo pericoloso e duro. Prego per te, ma tu per favore prega per me! Gesù sicuramente ascolta la tua voce, perché ha udito il 9 dicembre 2015 le tue urla di dolore, quando la motocicletta dei terroristi ti rompeva le ossa, passando e ripassando sul tuo corpo, devastandolo… In quel momento le tue urla di dolore hanno trafitto il cuore di Gesù. Ora tu vivi nel suo cuore, al riparo e al sicuro. Non ti preoccupare: nulla ti può accadere perché con la tua testimonianza vivi oggi nel cuore di Dio…” Jimmy è commosso e con molta discrezione mi dice che dobbiamo andare, dobbiamo ascoltare altre storie di dolore…

 

Rose
La terza persona di cui vogliamo raccontare la storia si chiama Rose ed ha ventitré anni. Sono molte le storie che abbiamo raccolto, ma per ragioni di spazio ne riportiamo solo qauttro. Tutte di grande valore. Rose è la più piccola delle quattro storie riportate, potrebbe essere mia figlia…
Rose dimmi esattamente cosa è successo alla tua famiglia
Anche io vengo dal Sud Sudan, quando avevo 18 anni mia madre, mio padre e la mia sorella più piccola sono stati tutti uccisi. Sono rimasta io da sola. Con alcuni miei vicini siamo scappati e siamo arrivati in Kenya al campo profughi di Kakuma. Ma alcuni sud sudanesi che mi conoscevano mi inseguirono fino a Kakuma.
Cosa è successo in seguito?
Quegli uomini mi hanno stuprato e torturato. Spaventata sono fuggita da Kakuma e sono arrivata qui a Dadaab. Qui io non ho nessuno, sono completamente sola. Qui nel campo profughi vivo da sola ed è molto pericoloso per i cristiani. Mentre fuggivo da Kakuma, mi hanno sparato: un proiettile è entrato nella mia gamba ed è uscito dall’altra parte, ho ferite in tutto il corpo, dovute alle sevizie di quegli uomini. Ho segni sul ventre, sulla schiena e dapperttutto.
Facendo così la ragazza, scopre il ventre ed orribili segni di tortura appaiono in tutta la loro crudezza. Rabbrividisco e lentamente con il pollice traccio un piccolo segno di croce sulle sue gravi cicatrici. La ragazza giovane è commossa e a fatica continua a parlare…

Padre, qui a Dadaab non sto bene. Mi hanno detto di tornare al campo profughi di Kakuma, ma ho il terrore che la possa ritrovare gli uomini che hanno sterminato la mia famiglia e che vorrebbero uccidermi… ma anche in Sud Sudan non posso tornare, vi è una violenta guerra tribale e una persecuzione dei cristiani e io sono da sola. Padre non so proprio più cosa fare. Mi avvicino alla ragazza e silenziosamente l’abbraccio. E’ spaventata e lo spavento lo sento in tutto il suo martoriato corpo ed entra anche nel mio sangue. Forse l’aver visto l’orrendo scempio di quelle ferite e il sentire tra le mie braccia quei singhiozzi di pianto mi hanno provocato una forte emozione, un brivido mi sale la schiena e in testa mi esplode una una domanda: ma perché tanto odio?

Joel
Ancora del Sud Sudan è la storia che raccontiamo attraverso la breve intervista. Si tratta di un uomo di quarantadue anni, di nome Joel. Ha vissuto anch’egli una storia orribile.
Joel, ci puoi raccontare la tua vicenda?
E’ una storia molto triste. Quando vivevo nel Sud Sudan il mio villaggio cristiano è stato attaccato dai musulmani. Noi eravamo nove in casa e stavamo dormendo. Chiamarono mio madre, mia madre e i miei tre zii; li rinchiusero tutti in una capanna e diedero fuoco. Morirono tutti in modo orribile. Mi presero con mia moglie che era incinta ed iniziarono a picchiarmi selvaggiamente. Ho ancora dei segni in tutto il corpo.
Orribile, che storia da brivido Joel. E cosa ti fecero?
Iniziarono a torturarmi, mi battevano con dei bastoni pieni di chiodi e poi mi strapparono i denti, una sofferenza atroce. Riuscii a fuggire di notte e scappai al nord del Sudan dove sono rimasto fino per alcuni anni. Ho vissuto per cinque anni a Khartoum. Dove trovai un lavoro, ma non mi pagarono…
Cosa hai fatto allora?
Ho lasciato Khartoum per un villaggio cristiano. Ma in questo villaggio giunsero gli islamisti e volevano ucciderci. Scappai con mia moglie in Etiopia in un villaggio chiamato Wandera. Anche qui persecuzioni. Andai ad Addis Abeba per cercare il modo di venire in Kenya. Da Addis Abeba abbiamo preso il pullman per venire in Kenya, abbiamo attraversato il fiume Tana e siamo giunti a Mandera. A Mandera abbiamo trovato aiuto presso una chiesa cattolica che ci ha pagato il pullman per giungere a Garissa. Da Garissa ci siamo stabiliti ad Hagadera per quattro anni, ma siamo dovuti scapare anche da lì a motivo della nostra fede e poi siamo giunti finalmente qui a Dadaab.
Quali prospettive hai per il futuro?
Ora il Governo del Kenya mi ha chiesto di lasciare Dadaab e fare ritorno in Sud Sudan. Ma io non posso e non voglio questo. Non posso perché non ho i soldi per il viaggio e non voglio perché in Sud Sudan i cristiani li uccidono. Io voglio rimanere qui nel complesso di Dadaab. Padre, non ho nessun lavoro; le Nazioni Unite mi danno un po’ di cibo, mia moglie è scappata e mi ha lasciato solo con quattro figli. Non posso tornare nel mio Paese e la vita qui per un cristiano è molto dura e rischiosa.
Joel mi presenta il suo piccolo nipotino, figlio della sua figlia più grande che è stato battezzato dal vescovo Joe. Il nostro breve incontro si conclude parlando del giorno di gioia che ha vissuto oggi a motivo della visita del vescovo e della bella festa che si è fatta in suo onore.

SANTINA MWEMA MULI KISANGU

Everlyne: la mamma con HIV
HIV e AIDS due parole che mettono ancora paura, che ancora oggi seminano morte e provocano disperazione, naturalmente in Africa non in Europa o negli Stati Uniti. Naturalmente tra i più poveri dell’Africa: per chi vive in luride capanne e muore di fame. Una di queste persone si chiama Everlyne e vive a Msabaha. Magra, con HIV, con un compagno inesistente, vive in una povera capanna: non ha da mangiare, non ha possibilità di lavorare. Con una parola sola: una disperata. Senza prospettive, senza un passato e con un presente sconcertante. Ha l’età di 37 anni ed ora ha tre bambini, ne avrebbe avuto 4 se un piccolo non fosse morto prematuramente per l’AIDS. Vive nella capanna con la madre ed il padre che sono anziani e malati, anche se non hanno HIV. Lei vive vicino a Mashabaha e si reca ogni giorno a Malindi per vendere frutta e con i pochi soldi che ricava deve provvedere a lei ed alla sua famiglia. Alcune volte dormono senza mangiare perché quanto riceve dal lavoro saltuario è molto poco. Normalmente mangiano un pasto per giorno. Everlyne sta usando le medicine contro HIV da almeno 12 anni.Ora pur avendo partorito da poche settimane continua il suo lavoro per gli altri bambini che rimarrebbero senza cibo. Lascia la piccola partorita il 27 ottobre alla nonna e, dopo averla allattata, va a Malindi a vendere la frutta. Grazie ai nostri aiuti può avere per la piccola bambina vestiti, sapone, pannolini ecc. Everlyne ha una piccola bimba che sia chiama Nora ed ha 6 anni e un bimbo: Rmasey Kalama che ha invece 7 anni. Ecco la sua storia: In tutto questo casino rimane incinta e non vuole abortire, perché in Africa si crede ancora nella Vita anche se si muore. Per tutti questi motivi Everlyne è inserita nel nostro nuovo programma per la cura dell’HIV. Una volta al mese un medico, un infermiere, un farmacista ed un nutrizionista vanno dalla ricca Malindi a Msabaha un povero villaggio dimenticato e lì per un giorno visitano e distribuiscono medicine e – nel caso di grave denutrizione – danno alimentazione per un mese… Si tratta solo di 10 chili di farina, ma meglio di niente. Lei, Everlyne è lì per farsi curare e riceve i suoi poveri dieci chili di farina. Gli occhi sono tristi e la sua pancia si sta ingrossando… Aspetta un figlio e il padre è scomparso! Riceve una maglietta con il nostro logo da Jimmy e domanda: “Chi sono questi italiani che mi regalano cibo e medicine una volta al mese?” “Sono una Associazione. Sono gli Amici di Santina”. “E chi è Santina?” Replica la giovane donna “Santina era una signora molto buona che ha sofferto tanto, tanto ma che ci ha lasciato un grande esempio e un grande insegnamento: pregare e fare del bene!” Con queste parole Jimmy congeda Everlyne e dà appuntamento a lei per il mese seguente.

Sai come ho chiamato la bimba? Santina!
La donna ritorna puntuale il mese scorso; viene visitata dai dottori, riceve la farina e poi si avvicina a Jimmy… “Ormai sono al termine della gravidanza, chissà se riuscirò a partorire e… Se partorirò voglio fare una cosa semplice che ti farò sapere…”. Jimmy consola la donna e le dice di chiamare se avesse bisogno di qualche cosa attraverso il cellulare della suora del dispensario. Il 27 ottobre 2016, squilla il telefono di Jimmy nella tarda mattinata. La suora dice che Everlyne sta partorendo ed ha chiesto di lui, lo vuole vedere presto! Jimmy pensa che Everlyne stia male e così il giovane nostro volontario al telefono inizia a raccontare: “Don Gigi, quando ho ricevuto la telefonata dalla suora ho pensato Everlyne mi volesse vedere perché stesse male… che stesse morendo, che forse ci fosse qualche problema con il padre del piccolo”. Prosegue Jimmy al telefono con me in Italia: “Padre, percorro correndo la strada verso Msabaha, giungo al villaggio, scendo per un viottolo pieno di palme, fa molto caldo è quasi mezzogiorno e da lontano scorgo il tugurio della donna. Ci sono donne fuori dalla capanna, ma non mi sembra il clima del dramma, ma quello della festa: le comari sorrido, chiacchierano e ridono. La cosa che mi colpisce è che pronunciano il nome di tua madre. Una donna grassa dice lentamente ad una bambina San-ti-na, la piccola divertita prova a ripetere, ma sbaglia, la cicciona la corregge Santina. Finalmente la piccola pronunciano correttamente la parola, corre via saltellando e canterellando Santina, santina , santina…. Altre donne commentano sottovoce come una stranezza, come un pettegolezzo di villaggio. Ma che nome è? Chi si chiama così della sua famiglia? Che donna strana… Importante che sua figlia stia bene e sia nata anche bella cicciottina”. Mentre Jimmy sente queste voci inizia a fare delle supposizioni che non riesce a ben determinare perché il suo passo veloce gli ruba il tepo di pensare: non si è ancora rallentato e mentre ascolta queste voci è giunto sulla soglia della capanna di Everline. Grandi sorrisi lo accolgono. Gli viene permesso di entrare: Everlyne ha appena partorito una bimba sana e forte! Nel buio del tugurio pieno di fessure l’abitazione appare in tutta la sua desolazione. Da una parte il sacco della farina aperto, un fuoco accesso con una pentola di acqua bollente, una lampada a petrolio che rende l’aria acida e che provoca bruciore agli occhi. Jimmy si guarda attorno e poi si siede vicino a Everlyne che porta una maglietta verde lacera. Vicino a lei un bellissimo e pulito fagottino di panni colorati. Everlyne è provata e stanca, ma i suoi occhi sono pieni di luce, quella luce che entra negli occhi delle donne e li trasforma radicalmente quando diventano mamme. Allora gli occhi della donna, proprio in quel momento in cui partorisce, vengono toccati dalle dita di Dio e si trasformano… Quanto sono belli quegli occhi pieni di luce! E quanto sono diversi da prima. Quegli occhi sono formidabili mostrano energia di vita, scatenano entusiasmo, sono pieni di forza! Erveline coi suoi meravigliosi occhi di mamma che parlano da soli, guarda Jimmy e con lo sguardo prima che con le parole dice al nostro Jimmy: “È nata la mia bambina! E sta bene pesa più di due chili….” Il nostro giovane è felice, ma non capisce perché lo ha chiamato. Non osa domandare! Ma le mamme hanno formidabile intuito e la nuova mamma legge nei suoi occhi la domanda. “Hai ragione Jimmy, se tutte le mamme che partoriscono al Centro per la cura dell’HIV ti chiamassero passeresti la vita a… girare case. Ti stai chiedendo perché io ti ho fatto chiamare vero? Il motivo per il quale ti ho fatto chiamare è il nome che ho dato a mia figlia! Sai come ho chiamato la bimba? Santina! Si ho chiamato la mia piccola con il nome di quella vecchia buona che ogni mese mi regala medicine e mi regala 10 chili di ugali. Santina Jimmy è il nome di mia figlia!” Jimmy rimane colpito… Non si sarebbe mai aspettato una simile sorpresa. La donna prende in braccio il fagottino colorato e lentamente lo apre ed appare lei la piccolina, bella come il sole che dorme profondamente. Due occhi grossi e neri, una faccina delicata e lineamenti dolcissimi sono i tratti della piccola Santina che sembra nel sonno sorridere. Jimmy rimane lì incantato e sottovoce chiede: “Perché? Perché l’hai chiamata così?” La donna, che si aspettava la domanda, non si scompone e lentamente inizia a parlare: “Vedi Jimmy io sono una povera disperata non so quanto tempo mi rimane da vivere, guarda quanto sono magra puoi contare le mie costole, puoi vedere le articolazioni dei miei gomiti e tutto il mio scheletro. Quando l’ HIV si trasformerà in AIDS? E in tutto questo una profonda solitudine, mio marito è scappato quando ha saputo che ero incinta, tutti mi negano un lavoro perché sono HIV ed ora in queste condizioni non posso lavorare, ma scavando nel mio cuore in fondo in fondo ho trovavo un buco nero nero di angoscia e di disperazione. E mio figlio? Che ne sarà di mio figlio? Morirà di fame o per HIV? Queste domande non mi lasciavano dormire la notte finché tu mi hai dato quella maglietta con scritto Amici di Santina, con scritto Santina. Tornata a casa ho messo quella maglietta e ripetevo questa parole: pregare e fare del bene, pregare e fare del bene! Ma che brava questa donna italiana che si chiamava Santina. Il nome strano mi piaceva, aveva un bel suono e poi …ogni volta che mangiavo un pugno di farina dicevo: Grazie Santina! Grazie Santina! Grazie Santina! A furia di dire grazie ho cominciato a parlare con lei: Santina mi hanno detto che tu hai sofferto tanto, anche io soffro tanto aiutami… E puntualmente l’aiuto mi arrivava. Quando sento paura mi metto la maglietta bianca e mi sento protetta. Finché un giorno mi sono detta… Ma come posso io povera donna vicina alla morte ringraziare Santina; io non ho nulla per dire grazie della farina, delle medicine e delle cure che ricevo. Finché ecco un pensiero non nella testa, ma nel cuore, perché le mamme hanno la straordinaria capacità propria di Dio di pensare con il cuore, io ho un gioiello, io ho una grande ricchezza è il figlio che mi porto in grembo e presto nascerà, se sarà una bambina la chiamerò Santina! Mi misi a ridere divertita, cosa dirà la gente, le donne del villaggio, le comari e le pettegole? Divertita mi dissi: questo nome scatenerà un fiume di chiacchiere qui in villaggio, anche per questo lo farò, la gente deve sapere che chi mi sfama ora non è il mio uomo, i miei familiari ma una dolce signora italiana che si chiamava Santina”. Jimmy guarda la piccolina e le da un bacio sulla fronte. Il giovane uomo prende la parola: “Ma che bella notizia è meravigliosa chissà don Gigi quanto sarà felice ed emozionato di questa tua scelta. Devo subito dirlo a lui, raccontare a lui la tua riconoscenza, dire a lui tutte le parole che oggi mi hai detto. Lo terrò a lungo al telefono e lui mi farà mille domande: quello che tu hai fatto è una grande cosa, una cosa incredibile. Io ho conosciuto la storia di Santina. Ha sofferto molto Everline! Quanto ha sofferto Santina nel suo corpo martoriato da interventi chirurgici, da flebo, da piaghe di decubito eppure sempre con un grande sorriso di luce sul volto! Sto pensando Everlyne… Santina era il nome di questa donna buona che con la sua sofferenza ha fatto bene a tanti ed è stata di esempio a tutti. Oggi il suo nome appartiene a questa piccola povera che ha una mamma in miseria e che è sieropositiva, nata come Gesù in una squallida capanna, ma così bella e così dolce. Il nome di Santina non appartiene ad una bimba miliardaria o ricchissima, ma ad una bimba povera: è nata nella miseria e nella sofferenza. In questo si assomigliano le due Santina. Forse entrambe ci indicano la strada stretta per il paradiso”. Everlyne guarda Jimmy, sembra stanca e deve riposare. “Jimmy – replica la donna – io non so quanto vivrò e non so neppure quanto la mia Santina vivrà, ma se davvero lei, la Santina in cielo, ha fatto tanto bene io penso che lei dal cielo proteggerà la mia Santina e la terrà lontano dai pericoli, ti prego dillo al figlio sacerdote: io e mia figlia Santina non vogliamo niente: non ho messo nome a mia figlia per ricevere qualche cosa, ma perché ho ricevuto qualche cosa, non ho messo nome a lei Santina per ottenere un regalo, ma perché ho ottenuto un regalo… Dillo a don Gigi, fallo sapere a lui manda a lui una foto della piccola Santina, perché anche mia figlia oltre alla sua mamma in futuro lo proteggerà….” Il mio cellulare scotta è più di mezz’ora che sono in linea con whatapp con Jimmy. “Don Gigi ti ho detto tutto… Ora ti mando il certificato di nascita e due fotografie”. Senza parole chiudo la comunicazione e dopo un paio di minuti… Il certificato di nascita di Santina e una bellissima foto: la piccola nel sonno sembra che rida! Lacrime nel cuore e sul telefonino! Ho un nodo alla gola non riesco a parlare e forse anche a voi questa bella storia vi ha stupito, a me questa storia ha detto solo una cosa: stavo cercando un segno se tutto quello che facevo era sulla strada di Dio o era una mia esaltazione. Ora la piccola Santina mi dice che questa è la strada di Dio e dal paradiso nonna Santina con una carezza me lo conferma. Il 9 dicembre 2016, Santina ha fatto il primo test per vedere se è HIV e grazie al cielo il primo test è stato negativo. Jimmy mi ha inviato un piccolo video nel quale la piccolina riceve una iniezione e piange, poi vi è una seria di fotografie, nelle quali si vede distintamente disegnato sulla fronte della piccola un sole. I tratti del disegno sono elementari, quasi infantili, ma creano in me forte meraviglia. Perché disegnare con l’enne sulla fronte di questa piccola bimba di poche settimane un sole con i suoi elementari raggi?

L’ incontro con la piccola Santina
Sono passati alcuni mesi da quando la piccola Santina è nata e sono giunto in Kenya con il forte desiderio di incontrarla. Il programma intenso che ho vissuto per andare a Dadaab Refugee Camp mi ha permesso solo di incontrarla negli ultimi giorni, ma il mio desiderio alla fine è stato appagato. Arrivo al villaggio accompagnato da Jimmy, Ervelyne mi sta aspettando e felice mi corre in contro. La donna è visibilmente segnata dalla malattia, molto magra, si vedono tutte le sue ossa, come del resto mi era capitato con Pilly, la musulmana morta alla fine dello scorso anno di AIDS, e il nostro Waziri. Waziri è un ragazzo cristiano che sta morendo di AIDS, lo avevo visitato alla sua capanna la mattina e quasi sicuramente era l’ultima volta che lo vedevo… avevo queste immagini nel cuore quando arrivai al villaggio di Msabaha. Everlyne è ai bordi del sentiero, e vuole onorarmi con la sua presenza e introdurmi nel suo villaggio. Per corriamo così insieme l’ultimo pezzo di strada verso il villaggio e ci troviamo in un piccolo spiazzo tra le palme su cui danno le povere capanne. Everlyne ha due grandi occhi neri e scorgo in essi la gratitudine per il modesto aiuto economico che inviamo a lei. Alcune persone ci attendono, quando, ecco uscire dalla capanna una signora dai bei lineamenti, Jimmy mi dice essere la mamma di Ervelyne e tiene in braccio lei, la piccola Santina. L’emozione è fortissima la bimba per me è bella come il sole, bella paciottina, con due occhi di un colore meraviglioso. Devono essere di un marrone scuro, ma il sole che ha di fronte la piccolina, conferisce ad essi una sfumatura che sembra essere di un verde scuro scuro. Vengo rapito dalla vista di quella piccolina, ma la mia commozione si fa visibile quando sento la sua mamma chiamarla: “Santina!”, la chiama anche la nonna: “Santina!”, la chiama infine Jimmy: “Santina!” Io rimango muto. Quel nome non lo pronunciavo più chiamando una persona dalla morte di Santina. Esso era come sigillato ermeticamente in me e per sempre sepolto nel cuore. Ho paura, mi blocco e mentre mi blocco, la nonna fa un’altra cosa, mi da la bimba in braccio. Questo non ci voleva, sono spiazzato… il resto lo fa lei, Santina. Alza il suo visino e non sembra essere spaventata dal fatto che sono muzungo, bianco. Tranquilla mi guarda. La guardo, lei con la saliva fa una piccola bollicina che subito scoppia, sbuffa, ha un po’ di raffreddore e poi? Appoggia la sua testolina contro il mio petto. Sento le piccole guance, la sua manina sta tendendo la mia grande mano. Guardo le piccole dita, guardo i suoi paffuti piedini e rimango estasiato dalla sua bellezza. Per me è la più bella bambina che abbia incontrato, ma la magia ha inizio quando lentamente e con voce bassa al suo piccolo orecchio sussurro “Ciao piccolina, ciao piccola San-ti-na!” L’incantesimo è rotto, ora Santina è il nome di questa piccola bimba, ora Santina non è un nome vuoto o un grido spento, Santina è lei che porta quel nome in onore e ricordo di mia madre. Everlyne, la nonna e Jimmy sono felici e battono le mani. Io alzo un po’ la voce e la chiamo “Santina!” lei si gira mi guarda con i suoi ricciolini africani e io rimango incantato e inizio a riempirla di baci… come facevo con Santina. Prendo la piccolina e porto la sua guancina vicino alla mia guancia ispida per la barba, la piccolina si indispettisce, mi accorgo, la appoggio allora sulla spalla: è dolcissima, sembra una bambola. Ci sediamo, mi prende la mano e inizia a giocarci, mi succhia il pollice destro e io me la guardo, la contemplo cerco di catturare ogni istante con lei. Nel cuore nasce una preghiera: “Grazie Signore per il dono di questa vita. Chi mai avrebbe creduto che un giorno qui in Africa una piccola bimba avrebbe preso il nome di Santina in onore di mia madre? Che tipo di futuro avrà questa piccola con una mamma così malata, con altri due fratellini ed in questa squallida miseria?” Jimmy la prende in braccio, non vorrei staccarmi, ma il mio giovane amico mi dice che forse è bene dedicare alcuni minuti alla mamma. Ha ragione. Io parlo in inglese e lui traduce in kiswaili: “Everlyne, sono venuto da lontano, tante ore di aereo per poterti incontrare, ma soprattutto per poterti dire grazie. Da quando mia madre è morta questo è il regalo più significativo che Dio poteva fare, farmi vedere che Santina, mia madre è stata capace con il suo dolore di aiutare gli altri e di generare vita, questa piccola si chiama Santina perché tu hai voluto fare un gesto di riconoscenza verso mia madre! Sei una donna nobile pur nella tua povertà, sei una grande donna e io ti ammiro”. Everlyne inizia a parlare: “Doveva essere una donna molto buona tua madre perché noi oggi, che non l’abbiamo conosciuta, possiamo godere della sua azione generosa! Sono orgogliosa che mia figlia porti questo nome e ti chiedo di starci vicino, io non so quanto tempo mi rimane da vivere. Ho tre figli, ma so che Dio mi aiuterà!”Queste parole generano in me un fremito di commozione, la donna piange. Grosse lacrime scendono dagli occhi. Sto in silenzio, poi lentamente alzo la mano destra e con il pollice seguo il corso della lacrima sulla guancia di Everlyne e l’asciugo, poi con entrambi le mani le asciugo le lacrime. Guardo la piccolina, con le mie mani lentamente giro il volto di Everlyne verso la piccolina, lei ci sorride felice ed io le sussurro: “Non avere paura; Santina asciugherà le tue lacrime!” E dopo averle dato un bacio in fronte ripresi da Jimmy la piccola Santina tra le mie braccia e una grande calma mi entrò nel cuore. Quel batuffolino nero quella sera africana aveva curato il mio cuore.

BARBONE PER UNA NOTTE AD AMSTERDAM
Sono appena rientrato da Dadaab e mentre scrivo sento ancora l’anca sinistra indolenzita, ma tale dolore non viene dall’Africa, ma bensì da Amsterdam a motivo di una sosta imprevista e forzata. Dopo le otto ore da Nairobi alla capitale dell’Olanda, l’aereo sta per atterrare, ma i sobbalzi sono forti e la discesa molto brutta. Atterraggi del genere ne ho provati molti… ma le conseguenze di questa brutta tempesta non la potevo minimamente immaginare. L’aeroporto chiuso, moltissimi voli in partenza cancellati, tra i quali anche quelli del mio rientro serale in Italia. Unica speranza il banco di assistenza dei passeggeri per chiedere di essere riprotetto sul primo volo in partenza. Così mi dicono e così mi decido a fare. Percorro un lungo tratto di aeroporto e poi vedo una fila pazzesca lunga alcune centinaia di metri: è la fila per il banco di assistenza. Già nella normalità mettersi in coda per centinaia di metri getta in depressione e sconforto, figuratevi dopo un lungo viaggio di otto ore, un altro volo di un’ora da Mombasa a Nairobi e prima di questo volo, un itinerario in macchina di due ore da Watamu a Mombasa: praticamente non ci volevo credere… forse sto sognando, ora mi do un pizzicotto, parolacce ed imprecazioni, ma la fila non cambia e rimane lì a sfidarti. E la sfida la vinci non con la rabbia, ma con la pazienza e la calma! Mi metto in fila, passa un’ora e arrivano con bottigliette di acqua, passano altre due ore e io devo andare a fare pipì e chiedo alla ragazza giapponese dopo di me se mi può tenere il posto, ma non è così semplice si deve avvertire la sicurezza; la sicurezza benevolmente concede e così vado e torno al mio posto; passa una nuova ora e giungono con una barretta nutritiva e così penso alla tragedia di un attesa che non ha termine, siamo ormai a sei ore di coda… siamo stanchi di stare in piedi: ci sediamo. Il tempo non passa più. Ora il tempo batte le ore 20,30 sono quasi sette ore che attendo il mio turno; …e poi trascorrono altre due ore prima di avere sul mio biglietto una fuggevole indicazione di un volo per l’Italia il giorno dopo alle 7. Ora ci sbattono tutti fuori: non si può rimanere in aeroporto la notte; la compagnia aerea paga la permanenza in un albergo, ma dopo migliaia di passeggeri tutti gli alberghi nelle vicinanze sono pieni e così ci dicono di trovare noi un albergo e la compagnia avrebbe effettuato il rimborso. Vi immaginate la sera, alle 22,30 per le strade di Amsterdam a cercare un albergo con il rischio di trovarlo dopo molte ore e lontano dall’aeroporto? Mi affaccio fuori e…mi accorgo di essere nudo! Ho solo una maglietta mezzemaniche ed una felpa e fuori fa meno sette gradi e vi è un vento formidabile. Rientro. Tocco lo zaino a spalla: documenti, denaro e contratti del Kenya mi sembrano al loro posto. Mangio un pezzo di pizza e bevo un’acqua frizzante, ed ormai sono le 23.30. Cosa fare? Mi dirigo al settore partenze, tutti gli ingressi ai gates sono chiusi, niente da fare. Tra le grandi porte di ingresso e le partenze vi è una sala che è riscaldata. Esco, poi sento il freddo sulla pelle ed i brividi della folata ghiacciata in faccia… rientro quasi spaventato e… vedo loro! Alcuni barboni sono lì. Vicino ai caloriferi, sdraiati per terra e attaccati ai caloriferi. Che furbi questi poveri: al coperto e al caldo! Li osservo, mi dico: e se dormo vicino a loro, qui? Prima reazione: repulsione: mai! Poi, ci ripenso: sono così stanco, ho freddo, dove vado? Come ci dormono loro, posso dormire anche io? E poi, detto tra noi: sono anche al sicuro quale malvivente pensa a derubare un barbone? Non li vedo in faccia, sono 5 ma dormono tutti. Solo uno caccia un occhio fuori e capisce che sono interessato al meraviglioso posto letto, mi vede con indumenti troppo leggeri, sposta le gambe e si libera per me, tutto un calorifero. Mi sdraio, mi sorride e ricaccia la testa sotto la coperta a scacchi bianca e nera. Mi siedo. E’ freddo, il pavimento è gelato. Appoggio lo zaino e lo preparo come un cuscino. Già in Iraq avevo dormito con lo zaino per cuscino. Stendo le gambe e mi giro su di un fianco, il freddo nordico si fa sentire, allora sdraiato in quel modo su di un fianco riesco ad appoggiare tutta la schiena e le gambe contro il calorifero e la sensazione è bellissima di una dolce tepore che lotta con il freddo che provo per la parte sdraiata per terra. Provo ad arrangiarmi per la notte. Ma nel frattempo l’occhiata benevola del povero che mi faceva spazio aveva creato nel mio cuore il sorriso e poi la pace, dopo le incazzature e la rabbia della dannata coda di più di otto ore, finalmente un momento bello e di generosità: un povero mi fa spazio e mi accoglie come povero! La gente passa e mi identifica come uno di loro. E io mi diverto nel cuore e mi rilasso. Questa dura situazione si è trasformata in meravigliosa esperienza di condivisione: avevo dormito in una povera capanna in Kenya, poi nel campo profughi di Dawdia in Iraq, nelle case delle vittime del narcotraffico in Messico, tra le bombe di Gaza, ma mai tra i poveri della ricca Amsterdam e soprattutto essendo considerato un barbone dai passeggeri furenti nella notte di tempesta. Sono così stanco… stravolto. Il calorifero continua la sua azione benevola di scaldarmi; mentre ricordo il caldo torrido di Dadaab e la forte siccità mi rannicchio forte contro il calorifero. I passeggeri piano, piano si diradano ormai è notte fonda, fuori infuria una tempesta di neve e di vento. Le palpebre diventano pesanti ed anche il pensiero si fa lento… il cuore si calma, sento il loro respiro e mi fa compagnia, mi dona una serena pace, la rabbia e la furia del giorno trascorso lasciano il posto alla calma e alla pace e mi sento così felice vicino a questi barboni, a dormire come loro ad essere per una notte uno di loro…sprofondo in un sonno profondo e ristoratore mentre le luce della torre di controllo illuminano la mia notte ad Amsterdam

 

 

[1] A. Schmemann, Per la vita del mondo. Il mondo come sacramento, Lipa 2012, p. 146.

[2] A. Schmemann, Per la vita del mondo. Il mondo come sacramento, Lipa 2012, p. 133.