Viaggi di Solidarietà

17MO VIAGGIO DI SOLIDARIETA’: RESTORING HOPE IN IRAQ 12-21 AGOSTO 2016


IN IRAQ I CRISTIANI SOFFRONO A MOTIVO DELL’ISIS
Forse l’Occidente non crede alle difficoltà che i Cristiani in Medioriente vivono perché essi appaiono distanti dall’Europa; ma i Cristiani in Iraq soffrono a causa di partiti e gruppi fanatici islamici sorti in questi ultimi anni.
Tra questi gruppi il più fanatico è lo Stato Islamico conosciuto come ISIS, il quale non è solo fanatico contro i Cristiani e altre comunità religiose ma è fanatico contro i musulmani stessi. Infatti questo gruppo terroristico ha fatto del male più ai musulmani che alle altre comunità religiose. Ha bombardato e distrutto più moschee, monumenti, e tombe delle persone onorate dai musulmani stessi.

Dopo che ISIS ha conquistato la grande città di Mosul nella provincia di Ninive, il 10 giugno 2014, ha offerto ai Cristiani della città tre scelte: convertirsi all’islam, rimanere nella loro religione ma pagando la Gezia (un tassa imposta ai non Musulmani), oppure lasciare la città senza portare niente con sé. E cosi i Cristiani hanno scelto di lasciare la città senza portare neanche un dollaro. Hanno preferito abbandonare le proprie case e morire di fame piuttosto che negare la cosa più cara a loro, che è la loro Fede Cristiana.

Dopo solo alcuni mesi, cioè il 6 agosto 2014, in coincidenza con la grande festa secondo la Liturgia Orientale della Trasfigurazione del Signore sul Monte Tabor, l’ISIS ha voluto estendere il suo territorio sulle città intorno a Mosul, cioè la Piana di Ninve. Questa Piana è il centro più importante dei Cristiani in Iraq, dove ci sono città e villaggi cristiani molto importanti.
Mentre l’ISIS conquistava queste città e villaggi più di 100.000 cristiani hanno dovuto lasciare tutto e fuggire al più presto, prima che il Califfato arrivasse. Questi Cristiani sono venuti nei nostri villaggi cristiani nel Kurdistan. La Chiesa locale ha fatto tutto il possibile per offrire alloggio e cibo per loro. Era una cosa terribile. Migliaia di persone arrivavano ogni giorno nei piccoli villaggi chiedendo aiuto. Grazie a molte organizzazioni internazionali siamo risusciti ad aiutare questa povera gente, e stiamo ancora facendo tutto il possibile per aiutarli nei campi profughi e nelle case dei nostri villaggi. Dal giorno che sono arrivati questi profughi cristiani nella mia Parrocchia di S. Giorgio a Mangesh-Duhok, abbiamo chiuso tutte le attività parrocchiali nel centro pastorale perché abbiamo destinato tutte le aule a queste famiglie. Nei cortili della parrocchia abbiamo inoltre posizionato 36 caravan per l’accoglienza di queste famiglie. Ora la mia parrocchia si è trasformata in un piccolo campo profughi, che regala ospitalità ai cristiani sfortunati. Preghiamo il Signore che conceda la pace al nostro Paese e così queste famiglie possano tornare nelle loro case: che Maria, Regina della Pace, interceda per queste famiglie.

REV. YOSHIA SANA
PARROCO DI S. GIORGIO, MANGESH-DUHOK
KURDISTAN IRACHENO

IRAQ1

 

MONS. GINAMI TRA I CRISTIANI CACCIATI DALL’IS: QUI FEDE È ROCCIA (RADIOGIORNALE DELLA RADIO VATICANA DEL 17.08.16)

A non molta distanza ci sono le postazioni dell’Is. Ma ne campo profughi, tra i container, le famiglie dei profughi, molti cristiani, non perdono la speranza che pure i jihadisti hanno cercato di spezzare due anni fa scacciandoli dalla Piana di Ninive in Iraq. A visitarli in questi giorni c’è mons. Luigi Ginami, a nome della “Fondazione Santina onlus”.– Mi trovo in un piccolo villaggio, si chiama Arade, vicino alla città di Duoq, a pochi chilometri di distanza da Mosul e dalla Piana di Ninive.


radio vaticanaAscolta l’intervista cliccando sull’immagine qui  sopra presentata

– Perché la Fondazione caritativa “Santina onlus” si trova in Iraq?
– Perché in questi luoghi, due anni fa, dal 6 all’8 agosto 2014, l’Isis ha fatto uscire da Mosul e dalla Piana di Ninive tutti i cristiani, pena la morte o una tassa molto forte sulle case sulle quali veniva messo il nome “Nazir”, che significa “nazareno”, quindi cristiano; oppure la fuga. Molti sono fuggiti e sono in questi campi profughi che sto visitando. Ne ho appena visitato uno con 900 container nei quali vivono famiglie di yazidi. Essere cristiani qui è veramente impegnativo ed è un martirio: è cambiare completamente la propria vita per il nome di Gesù, cioè fuggire. Ieri, in serata, ho incontrato un giovane, vittima di questa espulsione; ha visto in faccia i soldati del “califfato”, ha visto la morte in faccia e mi ha raccontato storie bellissime che sto raccogliendo per portarle in Italia. Come quella di due anziani che a Mosul rifiutano di convertirsi al “califfato”; vengono sollecitati diverse volte e alla fine, con una fede grande e valorosa, vengono buttati fuori da Mosul al confine con la Piana di Ninive. Sono testimonianze forti, che fanno riflettere molto noi, in Occidente, in Europa, dove essere cristiani è più facile, ed essere cristiani significa spesso vivere una vita all’acqua di rose. Povertà, miseria, persecuzioni sono i colori dell’essere cristiano qui, in Iraq, al confine con la Siria, al confine con la Turchia e non lontani dall’Iran

07 MAPPA COMPLESSIVA ASZ

– Come vivono i sacerdoti e le parrocchie nella piana di Ninive?
– Prima di tutto, anche le chiese risentono di questa povertà e quindi i sacerdoti, spesso, non hanno gli stipendi, come in Italia l’8 per mille garantisce i nostri bravi sacerdoti; vivono in grande ristrettezza e cercano di portare aiuto e consolazione a queste famiglie fuggite. Ricordo che molti di questi container sono piantati nelle proprietà delle parrocchie: nei campi sportivi, nelle attrezzature delle parrocchie. Così i sacerdoti cercano di stare vicini, con la preghiera ma anche con la consolazione e l’aiuto, a queste famiglie che mancano di tutto. Molte di queste famiglie, poi, fuggono da qui, dall’Iraq, perché il ritorno in questi luoghi è davvero difficile e veramente la paura si sente forte. Ricordiamo che a 45 minuti di auto da qui c’è l’Isis, territori dove il “califfato”, dove “Daesh”, è presente. Quindi la paura di “Daesh” c’è, in queste terre. E anche questa è un’altra componente che forse dovremmo un po’ sperimentare sulla nostra pelle: avere vicino, sentire il respiro di chi non la pensa come noi e che vuole annientarci. “Quando siamo deboli, è allora che siamo forti”: questa frase di Paolo mi sembra che qui sia particolarmente vera e particolarmente significativa.
– Mons. Ginami, chi vive nei campi profughi ha ancora speranza di una vita normale?
– La speranza è quella della redenzione del dolore: quando si soffre, quando si lascia tutto per il Signore, Gesù ci dice che ci ridarà 100 volte tanto. E’ la fiducia proprio in questo: “Chi avrà lasciato casa, fratelli, sorelle, madre, figli, campi in nome mio, avrà 100 volte tanto in questa terra di eredità eterna”. Gesù questo lo dice ai suoi discepoli, ma noi lo possiamo anche trasferire qui, vicino alla Piana di Ninive, dove sto vivendo in questi giorni. Essere cristiani qui significa perdere tutto, essere disposti a perdere tutto. Rilancio una domanda a chi ci sta ascoltando in questo momento: tu che stai ascoltando, saresti disposto a perdere tutto per il Signore Gesù? Se non recuperiamo questa identità profonda cristiana, anche il nostro confronto con “Daesh” in Iraq o altrove sarà perdente. Dobbiamo riscoprire profondamente la nostra identità cristiana, coltivarla con la conoscenza, con la testimonianza e con la carità.

I PREPARATIVI AL VIAGGIO. LA NOTTE DEL 6-7 AGOSTO 2016
“Franca sto iniziando il reportage dell’Iraq. Sto scrivendo. In questa notte dal 6 al 7 agosto sto scrivendo… di 120.000 cristiani caldei, yaziti e sciiti in fuga da Mosul e dalla Piana di Ninive. Si rifugiarono tutti a Erbil. Chiese, monasteri ed edifici di culto polverizzati dalla follia demoniaca dell’ISIS. Scrivo infine di un monaco guerriero che si chiama Padre Raphael deciso a difendere il suo piccolo monastero di Alqos: era la notte dal 6 al 7 agosto 2014. Esattamente due anni fa. Chi immaginava che in questa notte mi sarei preparato ad andare proprio laggiù in quell’inferno? Sarà condivisione, paura e commozione. Sarà un capire la Vita, riappropriarmi più profondamente della mia identità cristiana e di prete. Vado laggiù per incontrare questi rifugiati, per condividere con loro l’esistenza ed imparare nuovamente la mia identità cristiana che è contrassegnata dal Crocifisso, dal Vangelo e dal Pane spezzato. In questa notte mi viene richiesto dal ricordo di quella notte e da questi profughi di tornare ad essere cristiano che non si vergogna. Ci viene domandato di decifrare profondamente il DNA della nostra fede cristiana e di prepararci al martirio come Padre Jacques. Sia una serata di preghiera e riflessione. (Messaggio WhatApp del 7.08.16 ore 00.39).

E’ una calda notte estiva a Roma e nel parco di casa si sta bene, le stelle brillano in cielo e la luce dello schermo del portatile mi fa compagnia mentre tento di riordinare le idee per questo viaggio di solidarietà in Iraq. Mentre scrivo un’amica manda un messaggio whathapp sul fenomeno dell’islamismo, sa che sto preparandomi a questo viaggio duro, complicato ed anche pericoloso. La mia risposta si trasforma in un lungo messaggio che mi piace integrare all’inizio di questa riflessione.Kurdistan iracheno, nel nord del Paese, Erbil, Mosul, Ankawa, Duhok, Dawoodiia, Baradash, Araden, Mangesh… eccoli lì i villaggi e le città che incontrerò: nomi difficili da scrivere, ancora più difficili da pronunciare, legati nell’immaginifico dell’Occidente ad altre parole che mettono paura come Iraq, oppure terrore come ISIS. Questa manciata di città si trovano al nord del martoriato Iraq ai confini con altri nomi inquietanti come Siria, Turchia ed Iran. Ho dovuto stampare diverse cartine da Google Map per capire la loro collocazione, sconosciuta alle cartine europee. Ho così tra le mani una caterva di fogli, una mappa del Paese regalatami all’ambasciata irachena di Roma.

 

Iraq

Come conforto e sicurezza alcune telefonate e mail con padre Yoshia Sana il sacerdote di rito caldeo che mi accompagnerà nella settimana e con Nakia Paulus una irachena cristiana impiegata di ambasciata che con voce calma e serena tenta di rassicurarmi.In questa notte di ricordo tra il 6 ed il 7 agosto ci sono tutte queste cose nella mia mente imbottita di informazioni nella speranza di trovare calma e serenità per vivere fino in fondo questa esperienza impegnativa. Dopo una sosta di tre giorni a Gerusalemme, quasi una sorta di preparazione spirituale e per celebrare le nozze di Pierandrea e Cristina, un volo mi porterà il giorno dell’Assunta ad Istanbul, da Istanbul ad Ankara e da Ankara finalmente ad Erbil dove atterrerò nel cuore della notte il 16 agosto alle 2,15. Una partenza diciamo in salita: atterrare da solo nella notte ad Erbil e poi la mattina via… per percorrere la Piana di Ninive e giungere a Mangesh a circa 15 chilometri dal confine turco. Terre devastate dalla guerra all’ISIS, scavate da incomprensioni etniche che dividono curdi da turchi e iracheni, terre dove la differenza religiosa è forte: musulmani sunniti e sciiti, cristiani caldei, yaziti fedeli di Taus Malek identificato anche con Saytan, l’angelo ribelle della narrazione biblica. Tali yaziti in particolar modo sono stati oggetto di atti atroci da parte dei guerrieri del Califfato e le loro donne vendute come schiave in gabbia nelle piazze di Mosul.

In data 9 agosto 2016 il quotidiano L’ECO DI BERGAMO propone a pagina 20 una nota sul nostro viaggio di solidarietà, che qui riproponiamo, se cliccate sulla pagina potete leggere il pdf :

ECO DI BERGAMO 9-8-16

In questa calda notte estiva in cui mi sto preparando al viaggio leggo le carte, cerco di approfondire le notizie, ma al fondo vi è la domanda perché? Perché andare laggiù! Questa volta non ho spinto più di tanto altri a venire con me: il pericolo c’è ed è anche colorato dalla storia fresca di Padre Jacques in Francia, sgozzato dai terroristi dell’ISIS al grido Allah Akbar. No. Non voglio fare l’Indiana Jones della fede, come qualche amico mi ha scherzosamente definito in queste avventure. No vado laggiù per loro, per incontrarli e conoscerli, vado laggiù per capire. La scusa di una aiuto da parte di Fondazione Santina, quale la costruzione o la riparazione di un edificio o il dono di un generatore di corrente o di una pompa d’acqua è secondario: al centro del viaggio vi è la condivisione. Noi non siamo una ONG, non siamo assistenti sociali, ma il nostro intervento ha una forte e chiara ispirazione cristiana che esige la condivisione.

Non vogliamo da lontano e con le mani pulite dare un dono, ma con l’idea che io sto qua e tu sei là e le frontiere ci dividono, ognuno a casa sua! No il primo tentativo di ogni viaggio di solidarietà è quello di abbattere muri e frontiere e di condividere la vita. Dormire in un campo profughi, essere senza alcuna comodità e avvertire sulla propria pelle la paura dell’ISIS a otto chilometri spero che mi spingano a rientrare in me stesso, andare giù, giù fino in fondo al cuore, ad operare tagli sull’anima, di togliere croste vecchie e secche per riscoprire la perla della mia identità. Il confronto con la paura dell’ISIS, le intemperie del forte caldo delle steppe irachene, della durezza del percorso e l’incontro con loro, con coloro che sono fuggiti all’orrore del Califfato mi costringeranno a pormi la domanda: ma tu sei cristiano, seguace di Gesù o un rammollito uomo affogato nelle sue comodità e nelle sue costruzioni mentali di benestante in Europa. Ma che razza di prete sei? Confrontato con preti che sono stati costretti alla fuga e che dividono la povertà del proprio popolo. Ma che razza di uomo sei, arrivato a 55 anni imbottito di comodità e tranquillità quando qui non vi è comodità e vi è guerra. Questo viaggio servirà a de-strutturarmi da me stesso ed a strutturami nuovamente solo in Gesù crocifisso, nel suo Vangelo e nel Pane spezzato. In una Regione dove satana ha distrutto chiese, divelto croci e frantumato le statue della Madonna chiederò a Gesù il dono di maggiore coerenza. Non vado in Iraq per aiutare, ma vado per essere aiutato e ritornare più umile e discreto. Santina mi sta prendendo fortemente per mano più ora che prima quando era in vita e mi conduce per le strade del mondo, nel tentativo di aiutarmi a crescere e di assomigliare un po’ di più a Lui, a Gesù. Ho paura all’inizio di questo viaggio e non lo nascondo. Ho paura sì dell’ISIS e delle difficoltà, ma soprattutto ho paura di non essere in grado di sfruttare la grazia che il Signore mi darà in questo viaggio in mezzo ai disperati dell’Iraq. Gerusalemme, sarà un bel trampolino di lancio verso questa terra che non conosco, verso questa terra piena di sofferenze ed inquietudine. Nel 2013 per le strade di Baghadad, a Najaf, Karbala, Nassiria e Basora viaggiavo con la scorta e con giubbetti antiproiettile, nel Kurdistan iracheno la situazione non è così pericolosa, ma sicuramente propone un confronto più aspro con il califfato dell’ISIS. Avvicinerò persone che hanno visto il terrore in faccia e che spinte dal terrore di essere uccise sono fuggite. Gente che ha visto le proprie case e proprietà confiscate e tristemente segnate dalla N di Nazareno, cristiano. Gente, cristiani in fuga per paura. Il cuore si riempie di commozione nel pensare a questo ed a questo pensiero si sovrappone il ricordo di una scena struggente di una giovane mamma su di un asinello in cammino verso l’Egitto con attaccato al seno il piccolo nato e con lo sposo che affettuosamente guida la piccola comitiva guardando la strada e volgendosi premurosamente verso la moglie ed il figlioletto neonato.

Abbiamo scelto come motto per il nostro viaggio una frase di Padre Jacques recentemente sgozzato da fanatici islamici, ve la riproponiamo:

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Anche loro tre scappavano con paura per la loro incolumità, anche loro avevano perso tutto, non per il cieco terrore del califfato dell’ISIS, ma per il cinico e stupido progetto di un pazzo chiamato Erode che farneticando aveva deciso la strage di molti innocenti per la sicurezza di uccidere un Re rivale appena nato. Forse quella gente assomiglia davvero alla Santa Famiglia di Nazareth in fuga verso l’Egitto. Forse da quella gente posso imparare la forza nella debolezza, perché per noi cristiani alla fine vale una grande massima evangelica: “Quando sono debole è allora che sono forte!” Così ci grida la vita di Padre Jacques sgozzato in chiesa a Rouen. Così mi insegnano le quattro suore di Madre Teresa trucidate nello Yemen, i 148 ragazzi massacrati a Garissa in Kenya, Rami il venditore di Bibbie nella Striscia di Gaza ammazzato senza pietà… e nel suo piccolo la vicenda di dolore di Santina che in sette anni dal 2005 al 2012 mi ha insegnato che la debolezza e la croce sono la forza del cristiano. E allora parto tranquillo: con tutti questi amici che ho citato che dal cielo mi proteggono nulla potrà accadere di male, mentre invece chiedo a loro che questo viaggio sia proficuo e pieno di grandi frutti spirituali. E’ tardi. E’ notte fonda, spengo il computer e mi raccolgo in preghiera prima di dormire. Devo riposare e giungere alla partenza in piena forma: tante energie saranno impiegate. Vado in Cappella, voglio parlare un momento con Lui. Buona notte a tutti. Nel parco gli alberi ondeggiano al vento e le cicale ed i grilli riempiono il silenzio della calda notte estiva: è tempo di dormire!

 

MANGESH
Alle 10 giunge a prendermi a Erbil Padre Yoshia Sana, il parroco di Mangesh, dal quale sarò ospite in questa settimana. Saliamo in macchina e partiamo per il piccolo paese di circa 3000 abitanti ad una ora dal confine con la Turchia e la Siria. Mentre il confine turco è praticabile, quello per la Siria è impedito dalla presenza dell’ ISIS. Il nostro viaggio è di circa 2 ore e quaranta minuti. Sono sei i posti di blocco che dobbiamo superare, ma trovo grande rispetto per noi sacerdoti da parte di tutto l’esercito iracheno. Sono ancora assonnato per le 4 ore di riposo notturno, ma interessatissimo a capire questa terra ed i cristiani che qui vivono. Mentre scrivo, sono seduto sui gradini della canonica a Mangesh e, anche se sono le sei del pomeriggio, ci sono ancora 37 gradi: il caldo iracheno è formidabile! Il nostro fuoristrada passa a dieci minuti di macchina dalle postazioni dell’ISIS, siamo proprio vicino al Califfato nero. Il padre mi mostra la strada, che percorre una steppa molto simile a quella di Baghdad. Iniziamo a parlare dell’ISIS e di come i cristiani della vicina Mosul siano stati fatti scappare, per avere salva la vita. Ormai a Mosul non esistono più cristiani e le chiese sono incendiate e distrutte. Molti musulmani sono scappati, perché non fedeli allo Stato Islamico, ma padre Yoshia mi dice che la loro accoglienza è problematica, perché, quando vengono accolti, essi comunque si sentono superiori ai cristiani ed impongono loro le loro abitudini. L’aiuto, dunque, deve andare prima di tutto ai cristiani. La scelta di conoscere Mangesh, Araden ed altri piccoli paesi sul confine con Siria e Turchia è la scelta di giungere al Kurdistan più dimenticato. Mentre vicino alla capitale Erbil vedo le insegne dell’ ONU, man mano che saliamo verso il nord, costeggiando la Piana di Ninive, tale presenza è meno evidente ed i campi profughi permangono nella loro accresciuta povertà . Giungiamo a Mangesh, entro nella canonica. Qui non vi è corrente elettrica tutto il giorno e dunque vi è un generatore, che mantiene la possibilità di frigorifero e poche altre cose, come un cellulare. Il caldo è molto forte, i servizi igienici sono ridotti all’essenziale: vi è una turca per i propri bisogni, con la difficoltà di dover prendere l’acqua da un pozzo.Pranziamo con un frugale pasto, un po’ di riso piccante con qualche verdura e un po’ di frutta. Nulla di più . La comunità cristiana di Mangesh conta circa duecento famiglie, mentre quella musulmana ne ha il triplo, circa settecento. Mente sto scrivendo queste note, la campana della chiesetta caldera invita i fedeli al vespro e alla santa messa. Padre Yoshia mi lascia per celebrare la messa e dopo, aver dedicato una buona ora alla preghiera, in questa serata dal caldo formidabile, scrivo queste righe da inviarvi, quando troverò un punto WI FI. Sento un po’ di disagio per la mancanza delle comodità che in Italia abbiamo, per l’ambiente nuovo e soprattutto per la presenza di ISIS a neppure un’ ora di strada. Voglio fare un buon lavoro e tornare in Italia con un’ idea più chiara di questo mondo e con proposte concrete di aiuto. Il signore mi aiuti per intercessione della Santina. Avevo davvero un grande desiderio di giungere qui ,devo fare tesoro di ogni secondo di scomodità e vivere fino in fondo e respirare con forza ogni istante che vivo. La nostra associazione deve essere assolutamente presente in questo luogo di mistero e di martirio.

DUE VECCHIE DI MOSUL
Neppure la sera il secco caldo stempera, in cielo la luna e le stelle sono appannate dalla fine polvere del deserto, che sembra creare un nebbia secca. È il cielo dell’Iraq con il suo tormento. Con in mano una tazza di tè caldo parlo con il ragazzo. Si chiama Ragheed ed ha 22 anni, è il primo rifugiato da me incontrato. Un ragazzo alto e robusto con i capelli corti, lui vive a Erbil e studia agronomia e teologia e si professa con convinzione cristiano. Parla discretamente inglese e così il nostro discorso è diretto, senza interpreti:” Padre, i fatti di cui ti voglio parlare riguardano i giorni 6-11 agosto 2014, i giorni terribili in cui Daesh ha invaso la piana di Ninive e ha fatto fuggire noi cristiani dai villaggi e dalla città di Mosul. Io studiavo nella città quando arrivarono gli uomini del califfato e ci dissero che, se non ci convertivamo all’islam, la città ed i villaggi sarebbero rimasti senza acqua. Nessuno di noi prese sul serio quella provocazione e così dopo tre giorni Mosul e la piana di Ninive rimase senza acqua! Era il giorno 6 agosto 2014. A quel punto la gente comincio a lasciare i villaggi e proprio in quel giorno Daesh inizió operazioni militai in modo sincronizzato. Tutti villaggi furono attaccati dalle loro milizie alla stessa ora.”Il ragazzo mi parla di uomini alti un metro e novanta, con grandi muscoli, degli autentici giganti! Spaventata la gente era costretta a lasciare le proprie case, solo per il fatto di essere cristiana. Amici mi hanno raccontato di aver visto villaggi come cimiteri,completamente vuoti e senza anima viva. Chi rimaneva ,veniva ucciso o si convertiva allo stato islamico. In tutta la piana di Ninive hanno iniziato a rompere croci a distruggere statue. Una situazione terrificante . Il ragazzo prosegue: “Essere cristiani qui, padre, è tante volte rischioso. Questo mondo musulmano non ammette eccezioni o ci si sottomette all’islam o si muore. Per essere cristiana la mia gente sopporta l’esilio, viviamo in container, quei container che hai visto a Erbil questa mattina.” Mentre parla, il ragazzo mi chiede amicizia su Face Book e nella pagina di fondazione Santina posta un video di 5 minuti, in cui una croce viene divelta dalla cupola di una chiesa.Qui e nella vicina Siria le chiese hanno fatto una brutta fine! Mentre il giovane robusto mi parla non mi rendo ancora conto di essere in Iraq, un Iraq pieno di sofferenza e di sangue! È ormai buio e faccio fatica a scrivere, ma Ragheed continua a parlare, come un torrente in piena scorrono le sue parole:” Padre ascolta questa storia pietosa, che riguarda due povere vecchie di 78 e 80 anni. Si trovavano a Mosul e non ascoltarono i richiami dell’ISIS a lasciare la città , forse non li capirono neppure…. Una mattina la più giovane si era avviata come tutti i giorni alla chiesa, ma all’ ingresso dell’ edificio due uomini le dicono di tornare a casa. La sorella la accolse perplessa, mentre si interrogavano su chi fossero quei due. Le vecchie erano chiuse in casa quando gli uomini di Daesh sfondarono la porta e furono presi da meraviglia nel vedere le due vecchie rimaste in casa. Chiesero loro perché non se ne fossero andate e poi le lasciarono rimanere per circa una decina di giorni. Iniziò così il tentativo di convertirle, ogni giorno portavano cibo e ogni giorno dicevano loro di convertirsi all’ Islam dal cristianesimo”.Mentre il giovane parla e sto scrivendo, mi viene alla mente la storia di Pauline la vedova di Rami a Gaza,che, dopo aver ammazzato il marito, gli islamisti tentavano di convertire, facendo promesse di prosperità. Le nostre due vecchiette di Mosul ogni volta con fierezza e fermezza rispondevano: “Noi siamo cristiane non ci convertiamo all’islam!” Bene, le due meravigliose donne difendevano con forza e chiarezza la loro fede. Quando gli uomini di Daesh si resero conto che non potevano piegarle, forse presi da pietà per la loro età, oppure sedotti dalla loro fierezza interiore, le caricarono su di una jeep e le inviarono a Duhok. Il ragazzo si quieta, nei miei occhi i campi profughi visti dell’albergo, arrivando a Erbil ,e la vicenda forte e serena delle due vecchie, disposte a dare la vita pur di non tradire la fede! Forse il mio viaggio in questo inferno, senza comodità e in mezzo ai pericoli, mi sta indicando la strada del paradiso.La fede forte e robusta di quelle formidabili vecchie la dice lunga sul modo di vivere la mia vita. Che grande esempio! Lo trascrivo con cura e in modo ordinato nel pezzo di carta che ho con me. La luna in cielo è sempre velata dalla polvere del deserto, eppure questa sera, in mezzo a questa polvere, ho trovato due luminosi esempi che tanto parlano alla mia Europa, divenuta pagana e senza più il coraggio della fede. L’Islam sta sempre più prendendo piede in Italia, perché viene meno il coraggio e la consapevolezza dell’ identità cristiana. In Francia si invoca la laicità come garante delle diversità religiose. Pazzesco, si invoca ateismo per salvare la religione: più demoniaco dell’ ISIS stesso, più scaltro e meno doloroso. Abbiamo paura di disturbare qualcuno ,dicendo che siamo cristiani e così non abbiamo pudore più di nulla, se non del dichiararci i seguaci del crocifisso. Qui, in questa terra bollente, imparo la forza della coerenza in due donne anziane e vedo tutta la mia incoerenza nel professarmi di Gesù . Si è fatto tardi qui a Mangesh, sto per chiudere l’iPad . Fuori, il silenzio profondo nel cielo sporco di sabbia mi fa pensare alla vicina Mosul, lontana quanto Milano da Bergamo, in cui Daesh ha imposto il califfato. Non sono lontani, come in Europa appaiono sempre gli uomini del califfato, anche dopo lo sgozzamento di padre Jacques, sono vicini, ne senti il respiro sulla pelle e costituiscono una forte provocazione: ma se mi trovassi di fronte a loro oggi, avrei il coraggio delle due vecchie, oppure scapperei? Mi interrogo e mi chiedo quale sia il segreto delle due vecchie di Mosul e la risposta la trovo nelle letture della messa di oggi 16.8.16 : il cuore buono e umile! Forse in Europa Daesh prende piede, perché il nostro cuore si è insuperbito e abbiamo pensato per tanti anni di essere come Dio. Il nostro cuore è orgoglioso, a differenza di quello delle due sapienti anziane, e quando il cuore è pieno di orgoglio, esso va alla deriva e va incontro alla propria fine.Ci siamo creduti Dio, come fece all’inizio della nostra storia umana Adamo, e questo ci costerà caro! Ecco cosa dice a noi europei oggi il profeta Ezechiele :«Perciò così dice il Signore Dio: Poiché hai reso il tuo cuore come quello di Dio, ecco, io manderò contro di te i più feroci popoli stranieri; snuderanno le spade contro la tua bella saggezza,profaneranno il tuo splendore. Ti precipiteranno nella fossa e morirai della morte degli uccisi in mare. Ripeterai ancora: “Io sono un dio”,
di fronte ai tuoi uccisori? Ma sei un uomo e non un dio,in balìa di chi ti uccide. Per mano di stranieri morirai della morte dei non circoncisi, perché io ho parlato». Ezechiele 28,1-10. Se non ci convertiamo, presto sarà la fine per l’Europa . Se non torniamo alla nostra identità religiosa, quella delle due sapienti anziane di Mosul, saremo spazzati via dal nostro orgoglio. Chiudo questa polverosa giornata qui, a 45 km da Mosul, con una giaculatoria e tu che sei arrivato fino a qui nella lettura ripetila dopo di me:” Signore Gesù abbi pietà di me peccatore!” Affidiamoci a Gesù e riprendiamo il coraggio della fede: vivremo con più forza e serenità la nostra vita, come hanno fatto le due vecchie di Mosul!

07 MAPPA COMPLESSIVA

Qui sopra viene indicata la cartina del nostro 17mo viaggio di solidarietà. Le stelline gialle sono i luoghi che visiteremo. Sarà un incontro molto importante con i rifugiati spinti a fuggire dall’ISIS. Nella cartina sotto viene riportato il territorio sotto l’influenza dello Stato islamico.

SAMI DAHUD MUSA
È una persona rimasta paralizzata alle gambe in seguito a un infarto. Ha una moglie e tre figli ed abitava nella città di Mosul. L’ uomo è seduto con le gambe incrociate sul letto, mi guarda intensamente con uno sguardo sofferente e triste: “Padre, era il 6 giugno 2014 , la mattina alle sette sfondano la porta di casa: sono i militanti di Daesh. Un giovane tra i ventidue e venticinque anni si dirige verso di me con fare deciso e mi dice che me ne devo andare. Chiedo il perché e cerco di mostrare tutte le mie motivazioni. A quel punto lo sguardo dell’ uomo si fa furente i suoi occhi diventano di fuoco, estrae un coltello e me lo punta alla gola e non contento estrae dal fodero la pistola e me la punta alla tempia.””Se non vuoi morire te ne devi andare subito, ora, senza prendere nulla!”  “Ero spaventato a morte, padre ed incredulo…. Te lo immagini vedermi sbattuto fuori da casa mia, su di una sedia a rotelle spinta dai miei figli?! Non ci lasciano prendere nulla, neppure le mie medicine . In quel momento mentre lasci la tua casa, così improvvisamente, muori dentro padre! Ricorderò tutti i millimetri di quella strada in quella calda mattina di giugno. In testa una grande confusione: dove andare? Che cosa possiamo fare? Non poteva essere vero! Le domande si confondevano con le lacrime, si bagnavano di lacrime e il respiro esplodeva dentro. Poi l’idea di andare ad un convento nella Piana di Ninive per poi fuggire di nuovo qui, il 6 agosto 2014. Essere cristiani qui è molto pesante ed anche terribilmente pericoloso. Ora sono qui in questo luogo in cui tutti condividiamo disperazione. Sono venuto a sapere recentemente che sulla mia casa era stata posta la lettera N, in arabo, che vuol dire Nazzareno, cioè cristiano. Quella lettera è il motivo della mia grande sofferenza, ma la sofferenza che provo, produce pace nel cuore.” Mentre mi dice così, quasi a firma della sua testimonianza, l’ uomo mi disegna, con la biro, il segno della N in arabo sul braccio sinistro, vicino ad una mia cicatrice. Rimango impressionato da questo suo gesto e vorrei conservare nella mia pelle quel disegno, che fa riferimento a Gesù. Per non perderlo mi faccio una fotografia al braccio sinistro. Vedo nella casa piccole immagini sacre, propongo la recita del Padre Nostro e poi do loro la benedizione. Abbraccio forte quell’ uomo e mentre compio questo gesto, mi rendo conto che Lui è davvero la carne di Gesù. Sento una grande forza interiore nell’ incontro che ho avuto. Lasciamo questa casa per visitare una seconda famiglia. Una caratteristica del campo di Dawodiya sono i bambini, tanti bambini e tutti bellissimi degli angeli che ti danzano attorno, che scherzano con te, che ti invitano a entrare nelle loro case. Bambini con piedini nudi, sporchi, con i capelli scompigliati, bambini con escoriazioni, con graffi, ma quanto sono belli! Sembrano degli angeli, che custodiscono il campo dal demonio di Daesh, non importa se siano Yazidi o cristiani, dobbiamo guardare a tutti nello stesso modo e vivere ogni momento – come diceva nel suo testamento spirituale padre Jacques morto per mano di Daesh a Rouen – come un momento in cui essere attenti agli altri, chiunque essi siano. Scatto migliaia di foto ed ogni scatto mi regala un sorriso di paradiso! Hanno dei sorrisi bellissimi questi bimbi, di una grande dolcezza, ti rubano il cuore, ti commuovono e ti chiedono conversione, quella conversione che il viaggio Restoring Hope in Iraq 2016 mi propone.

HAZAR
Prima di parlare del mio incontro con Hazar, mi sembra importante premetter una riflessione su come il folle Stato Islamico inneggi al ritorno della schiavitù. «Con il permesso di Allah, conquisteremo Roma, spaccheremo le vostre croci e renderemo schiave le vostre donne. Questa è la promessa che Lui ci ha fatto (…) e Lui mantiene le promesse». Queste parole diAbu Muhammed al-Adnani al-Shami, portavoce dello Stato islamico, pronunciate in un file audio, sono state riprese in un lungo articolo pubblicato sul quarto numero della rivista dei jihadisti, Dabiq. La copertina del numero, dal titolo “La crociata fallita”, mostra con un fotomontaggio una bandiera nera che sventola sull’Obelisco di Piazza San Pietro. Con il termine “crociati”, i terroristi si riferiscono ai cristiani ma soprattutto agli occidentali in generale, colpevoli secondo loro di aver colpito e umiliato più volte nella storia il popolo musulmano.
In tale quarto numero (Dabiq, The Failed Crusade, Dhul Hijjah 1435, n.4), che ho tra le mie mani, un farneticante articolo dal titolo The revival of slavery. Before the hour (p 14-17) inneggia al «ritorno della schiavitù» e spiega come le ragazze yazide siano state prese e vendute come schiave, come la nostra Hazar . L’articolo è il più interessante di tutto il numero perché all’interno si ammette esplicitamente che «dopo la conquista della regione di Sinjar», avvenuta ad agosto 2014 in Iraq, «lo Stato islamico si è trovato davanti una popolazione di yazidi (…). Le loro donne possono essere schiavizzate» perché eretiche, al contrario delle «apostate» o «infedeli» che «possono solo ricevere l’ultimatum di convertirsi o affrontare la spada». Di conseguenza, «dopo la cattura, le donne yazide insieme ai loro bambini sono state divise tra i combattenti dello Stato islamico che hanno partecipato alle operazioni di Sinjar. Hazar e i suoi tre figlioletti facevano proprio parte di tale preda di guerra. In seguito, un quinto delle schiave sono state trasferite nel centro dello Stato islamico per essere divise come khums», cioè la quinta parte del bottino che Maometto storicamente teneva per sé e per la comunità. «Questa riduzione in schiavitù di famiglie politeiste è la prima probabilmente da quando è stata abbandonata la sharia. (…) Le yazide schiavizzate ora sono state vendute ai soldati dello Stato islamico».
La schiavitù forzata delle donne eretiche non viene solo presa come un fatto positivo, ma anche giustificato alla luce dell’islam, si legge nel citato articolo: «Bisogna ricordare che rendere schiave le famiglie degli infedeli e prendere le loro donne come concubine è un aspetto stabilito in modo chiaro dalla sharia. E se qualcuno la negasse o la prendesse in giro, negherebbe e prenderebbe in giro i versi del Corano e le narrazioni del Profeta, e di conseguenza diventerebbe un apostata». Possiamo ora iniziare a parlare della terrificante storia di Hazar, come l’ho raccolta nel campo profughi di Dawdiya.
Tra le diverse storie che ho raccolto negli angoli più disperati del mondo quella che sto per raccontare è tra le più terribili, coinvolgenti storie. È la storia di Hazar, una giovane e sfortunata mamma Yazida, nata il 16 novembre 1986. Gli Yazidi sono di etnia curda, non parlano arabo, ma curdo, in questa terra in cui arabo, curdo e caldeo convivono, senza spesso comunicare. Gli Yazidi hanno una religione orientale, che si rifà a Taus Malek, l’angelo caduto da cielo, che attende da Dio di essere, nella sua misericordia, perdonato. In passato, falsamente, sono stati creduti adoratori del demonio, mentre sono gente semplice e buona, che vive una religione complicata, fatta di regole bizzarre. Per questo motivo i musulmani, e Dahes in modo speciale, odiano profondamente gli Yazidi, come odiano i cristiani. Incontro Hazar nel caldo pomeriggio iracheno di circa 44 gradi, un caldo pazzesco che non mi permette di concentrarmi, ma la storia, che giunge a me attraverso un triplice passaggio, ha la forza di un elettrochoc. Per comunicare con lei, devo formulare ad un interprete donna la domanda in inglese, essa la ripete in arabo ad un uomo Yazida, che la traduce in curdo dall’ arabo. Questo macchinoso passaggio però alla fine funziona e, dopo le prime difficili battute, avviene una cosa incredibile: io, Marua, la ragazza caldea che traduce dall’ inglese all’ arabo, e Samir, il curdo che traduce dall’arabo alla lingua curda per Hazar, entriamo in sincronia e sintonia e così lo stupore, l’ indignazione, o la rabbia si trasformano dalla parola di Hazar in smorfia sul volto di Samir, poi su quello di Marua ed infine sul mio viso, per poi terminare la sua corsa su sgualciti fogli di carta, che racchiudono, in cinque fogli, la preziosa storia di questa donna sfortunata e gridano disperazione, angoscia e paura per lei e per i suoi meravigliosi tre piccoli bambini.
Sì, perché Hazar era sposata con un uomo curdo di nome Hakmad Kamal e viveva felice vicino al monte Sinjar, a pochi chilometri dal confine siriano a circa 200 chilometri da Rakka, la capitale dello stato islamico, ed a non più di 80 chilometri da Mosul. I due giovani sposi vivevano felici e dalla loro unione naquero tre bambini. Il primo bambino, nato nell’ anno 2010, si chiama Alan, poi due bambine Jasmin e Naslim nel 2012 e nel 20013 . Dunque a oggi i tre piccoli avevano nell’ anno in cui situiamo la storia 4, 2 e 1 anno. Piccolini oggi, appena nati ieri e partoriti al dolore ed alla disperazione. Se il racconto è terribile per la giovane madre, diviene un orrore pensare alla prigionia sotto Dahes di madre e tre piccoli bimbi! La storia che Hazar ci propone è ben speciale, non si tratta delle tante vecchie donne che sono nel campo profughi rimaste a Mosul, ma rispettate da ISIS e poi rimandate libere. No Hazar fa parte di una delle storie di schiavitù a cui le donne di questo popolo Yazida sono state forzate da Daesh. Ma andiamo con ordine. La vicenda che raccontiamo ha inizio il 3 agosto 2014 e termina il 1 dicembre 2014, sono circa quattro mesi in cui Hazar è restata schiava del Daesh., Tutto ha inizio in una località vicino ai monti di Sinjar. Una mattina, all’ arrivo dell’ISIS. li catturano e li portano ad un posto di polizia dove dividono gli uomini dalle donne e bambini. La donna indossa un vestito nero e porta un lungo velo sulla testa. è seduta accovacciata vicino alla porta del caravan. Mi colpisce subito per la sua elegante semplicità. Le pieghe del vestito cadono armoniosamente verso terra e lasciano intraveder i piedi nudi. Dal velo nero escono dei capelli neri lisci e ben raccolti dietro il capo. La ragazza non è magra ma il suo tratto è delicatissimo e i suoi occhi chiari sono molto profondi. Cerco di fissarla negli occhi, ma non ci riesco perché li ritrae verso il basso. Sembra confusa dall’intreccio delle traduzioni curdo, arabo e inglese. Poi piano piano identifica me come interlocutore e allora si calma e con la voce bassa inizia a raccontare e i miei amici a tradurre…. Sembra un passa parola, eppure il gioco funziona e ci accomuna tutti e quattro, ognuno cerca di moderare la propria interpretazione. per lasciare posto al suo animo, alla sua parola, alla sua angoscia che tutti vogliamo ascoltare e condividere. “Padre era una calda mattina di agosto quando ci portarono via da casa. Già questo mi sembrava un finimondo: che angoscia non avere più casa e perdere la libertà in un solo attimo. Ma avevo lui, il mio Hakmad, paradossalmente quelle poche ore insieme di carcere mi avevano schiantato contro di lui, mi avevano letteralmente appiccicato a lui, nei formidabili abbracci a lui riprendevo forza, mi sentivo al sicuro! Sentivo il suo abbraccio nervoso e forte che mi proteggeva e mi dava speranza, sentivo il suo cuore, sentivo il suo petto… Una emozione fortissima, forse il momento di più forte intensità vissuto con mio marito, e poi c’erano loro i tre piccoli. Naslin aveva solo un anno e da pochi mesi l’avevo staccata dal mio seno. Guardavo a loro, mi spaventavo e quindi abbracciavo mio marito, mi sentivo sicura, guardavo a loro, mi spaventavo e riabbracciavo mio marito. Quella manciata di ore furono trascorse così, fino al momento in cui due uomini di Dahesh .molto giovani e di corporatura enorme. Presero mio marito per le braccia e a forza lo condussero fuori. Lui gridava, dava calci e si difendeva con tutte le forze, ma i due uomini letteralmente lo riempirono di botte spingendolo fuori.” La ragazza si commuove, ma non versa una lacrima, è la mia traduttrice caldea Marua, una ragazza di 28 anni, a farlo e la sua traduzione si carica di risentimento e rabbia. Hazar mi fissa negli occhi e scandisce queste parole infuocate:” Rimasi sola! E da quel giorno non ho più rivisto mio marito. Le prime ore di prigionia diventarono così le più dolci della mia vita paragonandole al momento del distacco da Hakmad . Scoppiai a piangere e cominciai a guardare a loro in un modo diverso a Naslim, Jasmin e Alan. Solo loro mi tennero in vita durante i quattro mesi con Daesh. Ed iniziò così il mio triste pellegrinaggio. Per impedire la nostra liberazione ci spostarono in quattro differenti posti.Nei primi due luoghi ci tennero per venti giorni, poi ci portano a Rakka, nella capitale dello Stato islamico in Siria e poi l’ultimo posto, dal quale, con enorme terrore, siamo riusciti a fuggire.” Samir sembra già conoscere la triste vicenda ed allora chiedo a Marua di attenersi solo alla traduzione senza porre domande proprie. L’uomo dal turbante yasida bianco e rosso avverte di aver fatto un passo falso, si controlla e chiede scusa. Guardo in silenzio Hazar ,quasi chiedendo a tutti di tornare ad essere concentrati, e poi chiedo alla ragazza: ” Hazar raccontaci la tua prigionia: è vero che vogliamo aiutarti economicamente, ma prima di tutto vogliamo condividere il tuo dolore e poi vogliamo raccontarlo agli altri”. La ragazza si raggomitola su se stessa, quasi a proteggersi dal dolore che sentirà nel raccontare la sua storia, prende un respiro profondo e inizia un lungo è straziante racconto. ” Gli uomini di Daesh ci portarono in una casa in cui eravamo quaranta donne con i propri bambini. Era una situazione invivibile, con me era incarcerata anche la mamma di mio marito. La donna, non ancora anziana, aveva un carattere particolarmente duro e quindi non obbediva subito oppure rispondeva ai loro ordini e questo era terribile; ragazzi di 18 – 20 anni vestiti di nero la frustavano a sangue lasciandola sempre tramortita, finché un giorno non si rialzò più: era morta. Scoppiai in pianto, perché ci facevamo compagnia e mi faceva un po’ da mamma! Piccoli favori, coccolava con me i bambini nei lunghi pianti in cui scoppiavano gridando il nome del padre. Ci portarono a Rakka, dove siamo rimaste quarantacinque giorni. In quella prigione, ridotte a schiave ci davano un pane al giorno per me e i miei tre figli, un po’ di riso ed acqua puzzolente. Padre mi dovevo turare il naso con le dita per berla. Dalla prigione di Rakka non potevamo mai uscire all’aria aperta. I soldati del califfato ogni giorno entravano e ci gridavano di convertirci all’ Islam o ci avrebbero ammazzate. Quando sei in questa situazione, padre, il cervello scoppia! Io avevo nel fondo del cuore il nero terrore che potessero fare del male ai miei piccoli oppure…. Togliermeli! Erano troppo piccoli per essere picchiati. Le frustate le prendevano solo i figli dai dieci anni in su, ma questi piccolini li prendevano da parte e gli ripetevano brani del Corano, per farglieli imparare a memoria, una sorta di madrassa nel carcere. Una tortura continua. Per renderci meno aggressive, drogavano il cibo e le lunghe giornate di Rakka trascorrevano in una sorta di intontimento, dal quale non riuscivi ad uscire. Proprio in questo intontimento prendevano alcune di noi e le portavano via, tornavano dopo aver ricevuto ripetute violenze. Le più sfortunate stavano via intere settimane e poi tornavano solo alcune ore per incontrare i loro piccoli. Padre che strazio, mi ritenevo fortunata guardando queste disperate! La loro esistenza era terrificante, alcune di loro vendute con prezzo al mercato. Non so come mai, mi lasciarono stare! Ogni giorno ci dicevano che in breve tempo ci avrebbero messo il velo islamico, cosa che non è successa perché sono riuscita a fuggire.” Mentre la donna parla dentro di me cresce il risentimento… Ma queste sono delle bestie, il terrorismo islamico è il demonio, il minimo diritto umano che protegge donne e bambini calpestato da dei pazzi imbecilli che distruggono le croci. Ma come è possibile? Ero partito dall’ Europa con l’idea di riappropriarmi della mia identità, ma non avrei mai pensato a quale prezzo! Sto rielaborando gli appunti presi a penna seduto fuori dalla canonica nel villaggio di Mangesh, nella speranza di rapire un po’ di fresco alla sera e godermi un’ ora di riposo dopo estenuanti giornate passate al campo profughi. Questa sera la polvere del deserto non c’è e nel cielo limpido la luna mi fa compagnia e penso all’ Europa e a quanto siamo superficiali nel leggere il mondo musulmano: qui la vicinanza del diavolo nero a pochi chilometri ti fa ragionare! “Hazar, non ti hanno mai picchiata?” “ Questo avveniva spesso… Arrivavano, mi dicevano che mi dovevo convertire all’islam e poi mi legavano le mani dietro le spalle e iniziavano a frustarmi senza pietà davanti ai miei figli. Io li guardavo e da loro ricevevo forza, diventavo un leone e in silenzio subivo ogni sferzata, loro invece i miei piccoli piangevamo, giravano la faccia e gridavano. Poi mi liberavano e per diversi giorni portavo con me dolore e sangue su vestiti laceri e sporchi, che ne io ne i miei figli abbiamo cambiato in quattro mesi. Mi resi conto che piano piano i nostri piccoli sparivano, man mano i giorni passavano i bambini diventavano sempre di meno, le bambine sparivano e i maschi venivano arruolati per entrare nel meschino esercito di Daesh .” Il caldo pomeriggio sta passando nel campo profughi di Dawodiya, sono più di due ore che chiacchieriamo con Hazar, complice il macchinoso meccanismo in triplice lingua inglese-arabo-curdo. Devo preparami per la notte in un’altra famiglia del campo, nella quale sono atteso. “Hazar, scusaci per il tempo che ti abbiamo sottratto, ma dimmi una ultima cosa, raccontami la fuga. La donna inizia con un tono della voce stranamente forte. ” Padre è stato il momento più duro e problematico, perché dopo essere riuscita ad evadere il 1 dicembre 2014, per cinque giorni sono fuggita senza mangiare e senza bere, con i miei tre bambini da accudire, dormivo sulla strada e pensavo di morire, pensa che bevevamo acqua piovana per dissetarci dal grande caldo! Si padre, alla fine pensi di morire. Ero disperata, ero sfinita, il demonio di Dahes aveva svuotato la vita di una donna ritenuta falsamente adoratrice del demonio. Ero una donna felice e piena di vita, mi ritrovavo stremata, piena di frustate e con i vesti logori, puzzolenti e pieni di sangue, i miei tre piccoli avevano trascorso quattro mesi di prigione con me, la speranza era uscita dalla mia vita ed avevo imparato a bere lacrime fino al punto di annegare.” Gli occhi della donna si fanno lontani e capisco che è entrata in un altro mondo, come avviene a chi soffre terribilmente e sa che nessuno può capire l’abisso in cui si trova. La donna mi guarda e con modo forte mi dice. “Tu perché sei venuto qui da me? Cosa vuoi dalla mia vita bruciata, ricavare un articolo commovente ? Scimmiottare una compassione? Perché da due ore mi interroghi con tutte queste difficoltà?” Lei ora attende una risposta! Mi guarda con gesto di sfida e sembra essere rinato in lei quel forte carattere che l’ha accompagnata a navigare nel mare di lacrime. Rimango in silenzio e lei incalza” Rispondimi!” Alzo la testa e mi avvicino a lei, scosto il velo,leggermente dai capelli e le sfiorò la fronte con un bacio. Poi inzio a parlare. “No Hazar, non sono un giornalista, sono un cristiano ,che cerca di riscoprire profondamente la propria identità religiosa. Dahes non è una sfida solo per te, ma anche per me e per il mondo intero! Io sono un sacerdote, alcune settimane fa in Europa, un buon sacerdote anziano, che si chiamava padre Jacques è stato sgozzato dall’ ISIS durante la messa mentre faceva il prete, non per voler rubare a lui il portafoglio, ma gridando Allah akbar, bestemmiando il nome di Dio, perché nel nome di Dio non si può uccidere e frustare. Quell’ uomo è morto gridando: vattene satana, vattene satana! Chissà quante volte anche tu in carcere ,durante le frustate che ricevevi, hai gridato vattene satana! Lo hai gridato quando ti hanno portato via da casa con la tua famiglia, quando ti hanno strappato dal cuore tuo marito, quando è morta tua suocera: Vattene satana! Tu e padre Jacques siete stati visitati e provati da satana, ma avete vinto, non avete ceduto a lui. La figura di quel buon prete di 86 anni mi ha spinto fino qui in questa terra di inferno, dove si rischia la vita per il nome di Gesù . Tu non sei cristiana ma ingiustamente sei stata perseguitata e dunque tu sei come lui, come padre Jacques ,beata! Il tuo calvario è finito, il diavolo di Dahes ti ha lasciato, ed oggi tu hai fatto un’opera buona con un sacerdote meschino come me, perché hai insegnato a lui la forza dei leoni, la dolcezza di una madre e il coraggio di non piegarti a Daesh . Tu donna Yazida sei stata coerente e hai pagato. Mi domando questa sera: ma io sarei coerente come te?” La donna è davanti a me, dietro sento la traduzione di Marua e Samir, ora siamo in sincronia perfetta e Hazar sente quasi la mia parola come se parlassi nella sua lingua. La donna Yazida si alza e con la destra mi da una dolcissima e delicata carezza, I suoi occhi si riempiono di lacrime per la prima volta. ” Grazie padre per quello che mia hai detto, oggi tu hai portato a me qui a Dawodiya un seme di speranza. Da quando sono arrivata qui tu sei la prima persona che parla con me per due ore. La mia storia non interessa nessuno, è da cancellare e da dimenticare, tu invece sei venuto da lontano e mi hai regalato un bacio di consolazione e tanta misericordia, tu sia benedetto per tutto questo! In questo inferno hai portato un po’ di paradiso e hai messo pace e gioia nel mio cuore”. Mentre dice così, Hazar toglie lentamente il velo nero, che le copre il capo e me lo mette al collo:” Portalo con te, ricordati di me e dei miei tre angeli,prega il tuo dio che mio marito ritorni vivo da me e che Hakmad possa tornare ad essere mio e se non fosse così, aiutami con la tua preghiera e vicinanza a sconfiggere il buio che ho in fondo al cuore. Mentre Hazar pone suo velo sul mio collo, un brivido mi percorre la schiena pur con i 43 gradi di caldo. La guardo intensamente e rispondo. ” No Hazar, non ti dimenticherò, tu ora sei inserita per tre anni in un programma di adozione a distanza, ci prenderemo cura di te e tu farai parte della nostra grande famiglia. Ogni mese padre Yoshia ti porterà una piccola somma per non farti sentire sola e so che hai un bel debito di 1200 euro,ti lascio 120 dollari, gli altri verranno con la provvidenza, ma tu continua ad essere forte e non disperare mai. Apro la porticina del caravan, il sole entra forte ed illumina la donna sul volto, mi giro per salutarla e sento il suo leggero velo nero che mi fascia il collo, e mi dona una formidabile gioia. Da lontano, una voce parla al mio cuore e dice:” Quando sono debole è allora che sono forte!” Non sono sicuro, ma mi pareva quella di Santina. Sono pronto, domani un fuoristrada guidato da un peshmerga mi porterà ad Alqos e poi, costeggiando la piana di Ninive,verso Erbil . Un volo nella notte di domenica mi riporterà in Italia con un’ identità nuova e fresca, regalatami dal velo di una donna Yazida, straordinario testimone di forza e coerenza che muore, ma non si piega a Daesh. Ed io sarei disponibile a morire per Gesù, pur di non piegarmi a Daesh?Io penso umilmente di sì, con la forza dello Spirito Santo. Ora però prepariamoci al rientro in Italia ed a testimoniare, in ogni piccolo gesto della giornata, Gesù con tutte le mie forze,come ha fatto padre Jacques, che mi ha accompagnato in questo meraviglioso viaggio nell’ inferno di Daesh .

DAWODIYA IDPs CAMP IN DUHOK
Aspettavo da tanto tempo di avvicinarmi a loro, di conoscerli, di stringerli e di abbracciarli. Il campo di Dawodiya è il cuore del viaggio, come Challapalca lo è stato per il viaggio in Perù o l’ università di Garissa per quello del Kenya. Quattromila persone, il campo è a stragrande maggioranza Yazida ma vi è anche una discreta presenza di cristiani. Domani incontrerò la storia di tre donne incarcerate e vendute come schiave dagli uomini di Daesh, una triste, orrenda storia. Incontriamo la direttrice del campo profughi e il comandante militare dei 18 agenti, che sorvegliano il campo. Sono emozionato, finalmente le loro storie riempiranno queste righe, alla ricerca degli ultimi e delle loro storie di dolore , nate attorno alla vicenda di essere cristiani. Essere cristiani significa qui dare la vita, significa perdere tutto come è avvenuto a loro, come è avvenuto alla santa famiglia, fuggita in Egitto. Iniziamo la visita del campo contrassegnato dai teloni azzurri dell’ONU, che qui garantisce un minimo programma di alimentazione per chi qui ha perso tutto e vive in povertà estrema. Proprio all’ ufficio ONU BRHA a Duhok mi dovrò rivolgere per concludere un accordo di adozione a distanza per i nove bambini e per la donna Yazida e per poter mettere il logo della nostra Associazione. Incontrare le loro faccine, giocare con questi bambini, scherzare con loro è un modo meno doloroso per ridicolizzare me stesso e tutto il benessere di cui sono imbottito. La nostra comitiva è composta da il cugino di Yoshia, che traduce in inglese per me, da Philip un diacono, da un rappresentante della comunità cristiana e da uno di quella Yazida. Inizia il nostro percorso tra le vicende di dolore provocate da Dahesh.Solo in quel campo ho sentito i brividi sulla pelle, per la profondità del male causato dal califfato. Entriamo in un viottolo tra questi container che avevo intravisto ad Erbil.

DILER
È il bambino che vogliamo adottare in adozione a distanza per tre anni. Ha dieci anni ed ha un fratello, Daniel, di 15 anni. La storia di questi due fratelli è triste: il padre ha perso un braccio e dunque è disabile, sta facendo un piccolo lavoro occasionale e dunque non posso incontralo, e sono orfani di madre. È lo zio a parlare per loro. La mattina del 6 agosto 2014 Daesh entrò in casa e urlando come una furia gli uomini del califfato gridarono che dovevano lasciare la loro casa in 24 ore, se non volevano morire tutti. Mentre lo zio parla guardo Diner e mi chiedo quanto debbano aver sofferto e quanto debbano soffrire questi bambini sfortunati. Eppure nei piccoli vi è una capacità di adattamento che noi adulti non abbiamo più. Nei piccolini rimane ostinato ed attaccato al loro volto il sorriso, come nei piccoli bambini dell’asilo di San Roman in Perù o nei piccoli lavoratori in nero delle Ande peruviane. Preghiamo con loro e poi usciamo per incontrare un’altra famiglia per il progetto di adozione a distanza.

CRISTINA E SHIRANOSH
Queste piccoline sono sorprendenti, hanno solo 5 anni e sono due gemelline, belle come il sole, con i capelli biondi. Mi ricordano le due gemelline del Kenya: Sonia ed Emma. Vengono da Bartella, come gli altri cristiani che visiteremo. Dolcissime, mi corrono incontro dal loro container. Shiranosh sta giocando con la tanica di acqua fuori del container, mentre Cristina sembra indaffarata con lo stendibiancheria. Appena mi vedono mi si avvicinano. Il papà mi invita ad entrare. Questa storia è davvero commovente. Saluan, così si chiama il padre, è un uomo abbastanza robusto e siede per terra su dei piccoli materassini in gommapiuma. Vicino a lui la moglie Fadia. Ogni container ha degli spazi angusti che sono pieni delle poche cose che la gente è riuscita a portate via dall’ ISIS. Mi guardo attorno e mi accorgo che queste case prefabbricate sono piene zeppe di povertà: vi sono due piccole stanze e un bagno, niente di più e talvolta ci sono 8-10 persone! “Padre, era una mattina di giugno verso le sei, io stavo andando a lavorare con il mio pick up. Mi sento seguito. E’ un Toyota scoperto dell’ ISIS ,che si avvicina e tenta di fermare la mia macchina. A quel punto parte una scarica di mitra. Mi sento colpito, la mia gamba sinistra vien colpita da un proiettile e così anche la mia spalla destra. Gli uomini del califfato mi gridano di lasciare la mia casa. In mezzo al sangue e con un forte dolore risposi impaurito di sì.” Mentre dice così l’ uomo alza il pantalone e mi mostra la cicatrice sulla gamba sinistra e sulla spalla sinistra. Alla mente mi viene in mente la cicatrice di Alex in Messico, il tassinaro colpito dai narcotrafficanti, oppure le vaste ed orrende ferite dei sette feriti che abbiamo incontrato a Gaza nel 2014, ma questa volta le cicatrici del giovane curdo, papà delle due bellissime bimbe, sono molto diverse: mentre a Gaza ed in Messico quelle ferite erano causate da motivi di guerra e di egoismo qui la cosa è molto diversa. Quell’ uomo è stato ferito perché cristiano, perché odiato per la sua fede e a motivo della sua fede costretto a lasciare tutto. Notate bene cari lettori, questi uomini che ho incontrato, queste famiglie cristiane, questo ottimo cristiano potevano evitare di lasciare Mosul o la Piana di Ninive, se solo avessero rinnegato la loro fede! Ed invece no! La fede non si rinnega, si lasciano le cose, si lascia la vita, ci si lascia ferire o ammazzare. Questa cosa ha il potere di commuovermi profondamente, mi rigira le budella! Quell’ uomo porta nel suo corpo il segno della appartenenza a Gesù, in certo qual modo porta nel suo corpo delle stigmate. Quanto sono potenti questi viaggi, che grande antidoto e medicina alla mia vita! Non potrò mai più dimenticare Saluan e la sua famiglia. Lui è una provocazione formidabile, voglio stamparmi una sua foto e voglio che lui sia una mia guida spirituale, un modello da imitare. Le bambine sono dolcissime, quasi quasi me le adotto tutte due io, per ricordare il padre e le ferite che porta nel cuore in nome di Gesù. È notte qui ad Araden, questa sera il tempo è bellissimo, una forte luna piena è in cielo… L’ elettricità è venuta meno e vi è una forte oscurità che dà risalto alle stelle. Mentre ricopio gli appunti che ho preso al campo, qui nella casa di don Yoshia in questa terrazza dal panorama incantato, penso a quelle povere famiglie nel campo profughi e sento grande commozione per loro! Dobbiamo fare assolutamente qualche cosa per loro, non possiamo pensare di rimanere insensibili a tale testimonianza cristiana di valore assoluto a confronto con la nostra rammollita Europa, che non è più in grado di produrre testimonianza e coerenza. Mi interrogo su che fine faremo tutti, se non saremo capaci di tornare ad essere come gli uomini del Campo di Dawodiya.

MARCELA
La bimba è tra le più piccole che abbiamo adottato, ha solo due anni, i suoi genitori si chiamano Isack e Avi. Anche per loro la stessa situazione di tutti. Daesh ha avvisato la popolazione che avrebbero sterminato tutti coloro che non avessero lasciato Bartella e così senza aspettare il loro arrivo hanno lasciato il villaggio. Isack è cieco da un occhio e quindi la sua situazione è anche essa di disabile. Vedo tanta povertà in questa famiglia, quanto assomigliano tutte alla sacra famiglia di Nazareth!

RAMA E MARIA
Le due sorelle hanno 7 ed 11 anni. Nel caravan mi accoglie la mamma Milad. Il padre non c’è, sta cercando lavoro. La casa è molto povera e i poveri stracci sono tutti ammassati in una stanza, per terra vi sono stuoie e materassini in gommapiuma, non hanno più nulla ed hanno perso tutto per il nome di Gesù e questo me lo devo ben stampare nella testa, anche se la furia demoniaca di Dahesh ha colpito in questo campo anche i poveri Yazidi. La cena è pronta don Yoshia mi chiama… Chiudo l ‘ Ipad.

MARAN
Il bambino cristiano ha sei anni, sua madre si chiama Sindis Salem ed il padre è Fraeez di quaranta anni. Anche in questa famiglia ci sono sei figli ed il più grande di 18 anni è paralizzato alle gambe e non si può muovere. Sono stati avvisati dell’ arrivo dell’ ISIS e sono fuggiti prima del loro arrivo. Il padre invece ha atteso fino ultimo momento e poi davanti all’evidenza dell’ arrivo di Daesh, è fuggito anche lui.

BEDAN
È un bambino meraviglioso biondo, con occhi verdi chiari. La sua famiglia è Yazida ed è il penultimo di nove fratellini che si chiamano Faed, Rakana, Dalia, Arcan, Diala, Nafia, Amin ed Alia; la mamma si chiama Leila. La loro triste storia inizia il 6 agosto 2104, a Sinjan. Alle sette del mattino Daesh arrivava da lontano e, prima che i terroristi potessero fare loro del male, sono scappati. Per undici lunghi giorni il loro rifugio sono state le montagne, dove hanno mangiato quello che hanno potuto, finché, stremati, sono stati raccolti e portati al campo profughi. La famiglia è numerosa e in casa mi accolgono con una grande sorriso. I piccolini mi straziano il cuore, il nostro Bedan ha un occhio nero, probabilmente è caduto, perché vi sono diverse escoriazioni. I bambini del campo fanno chiasso e sono festosi e le loro vocine portano serenità in un ambiente di grande sofferenza.

ROGIN
È la bimba più piccola ed ha solo nove mesi, la mamma si chiama Alifa ed il papà Barakat, anche questa bimba è Yazida. Il fatto della loro fuga è tristemente legato alla data purtroppo celebre del 6 agosto 2014. Avvisati che in quella data Daesh avrebbe invaso la loro casa, sono fuggiti prima e non hanno visto in faccia gli uomini neri dell’ISIS. La famiglia è in uno stato di profonda miseria e la comunità Yazida ci ha suggerito la sua adozione.

NUR
La bambina Yazida ha sei anni ed è cieca, povera piccola! È l’ultima di sei bambini di cui un altro è handicappato e non può camminare. La sua mamma è ancora in mano all’ISIS. La trovo seduta in una vecchia ruota di macchina e si diverte girando su se stessa all’interno. La ruota con qualche ingegnoso e povero meccanismo, escogitato qui nel campo profughi, come tanti ve ne sono, si trasforma in una piccola giostra adatta per Nur. La bambina sorride alle voci che riconosce e mi mette una tristezza profonda. Il papà si chiama Nagip, ed ha quarantaquattro anni. I fatti che riguardano Nur si svolgono a Sinjab, da dove vengono tutti i bambini che abbiamo adottato di religione Yazida, mentre i cristiani vengono tutti da Bartella. Il 3 agosto 2014 il padre si accorge che Daesh sta arrivando, sveglia i suoi piccoli alle sei del mattino, dice alla moglie di prendere alcune cose e lui mette in salvo i bambini. Scappa Nagip verso le montagne. Non è facile con sei figli di cui la più piccola cieca ed un altro sulla sedia a rotelle. Poi inizia l’attesa, estenuante, infinita della moglie che più non arriva e che rimane in mano all’ ISIS. Mi chiedo, la povera donna sarà schiava di Daesh, come lo è stata la nostra Hazar?

ROLA
La bambina Yazida ha sette anni ed è ultima di tre fratelli; il primo ha 23 anni, il secondo 12 anni e poi vi è lei. Il dramma di questa famiglia di Sinjar è che entrambi i genitori sono ancora in mano a Daesh e non si capisce se siano morti oppure se siano schiavi. I tre figli sono mantenuti dallo zio, anche se il più grande compie lavori fittizi. La famiglia si accorge dell’ arrivo dell’ ISIS il 3 agosto 2014 ed allora decidono di fuggire. Ma prima del chech point la macchina dei genitori viene fermata e vengono trascinati via. Per un certo tempo i figli rimangono con la zia, sorella della madre, ed infine lo zio si è preso cura di loro.

NOTTE AL CAMPO DI DAWDIYA IDPs
Penso che il sonno profondo sia un dono che Dio concede alle anime in pace con se stesse.
Nella avventura di condivisione con i più poveri che Santina mi ispira in questi anni negli angoli più bui e sperduti del mondo, alcune volte mi chiamano turista missionario, oppure avventuriero della fede. È vero queste esperienze sono molto brevi e lo riconosco fino in fondo; ma esse costituiscono dei momenti forti in cui ricarico le batterie per tornare in Italia e riprendere il mio servizio in Vaticano, dove il Signore mi vuole. Alcune volte a pranzo o a cena arriva il professore della lateranense che vive in comunità con altri confratelli che dice: hai finito di fare turismo missionario? Io rimango sereno, anche se fosse turismo missionario le opere di luce che realizziamo come Associazione mi rendono tranquillo. Non trascorro le mie vacanze in montagna o al mare ma nei posti più schifosi del mondo… E allora non rispondo e continuo per la mia strada! In verità non è turismo missionario, ma non lo spiego a chi non vuole intendere. È qualcosa di diverso e di più. Oggi tutti noi diamo spazio alle vacanze, al tempo libero, ma spesse volte queste giornate trascorrono nella noia o nella ricerca di esperienze forti di piacere e gusto e così pensiamo di essere felici per la bella vita che trascorriamo dimenticando che la felicità sta nella buona vita. Queste esperienze forti come l’Iraq, di sicuro non riposano, ma rigenerano! Si torna stanchi morti, con dissenteria, scottature, talvolta sbucciature e lividi, ma le batterie interiori sono cariche di valori spirituali e di formidabili incontri, come quelli con Hazar. Tutto ciò crea unità di vita, ricupero delle proprie radici e forza nel vivere la quotidianità e ridona un profondo gusto all’esistenza! Si torna profondamente cambiati e i segni di questi viaggi permangono nel tempo. Dopo la squallida capanna di Nekesa in Africa mi ci mancava la notte nel campo profughi di Dawoodiya. Chiedo a Clara, la direttrice, se posso soggiornare nel campo profughi per una notte e la direttrice benevolmente acconsente a tale strana richiesta. “Don gigi in due anni che esiste il campo tu sei la prima persona che chiede di dormire qui, tu sia il benvenuto! Samir si prenderà cura di te. Hai qualche preferenza? Clara, vorrei soggiornare in una famiglia numerosa dormire con un bel po’ di bambini attorno e con tutta la famiglia riunita. Pensi sia possibile? Io ho visitato la famiglia di Bedan che abbiamo preso in adozione a distanza. Loro sono nove bambini. Che ne dici? Penso che questa famiglia Yazida sarà felice di ospitarti! Samir, mi accompagna per il viottolo con Jamal il giovane Yazida che parla perfettamente inglese e che sarà il mio traduttore. Passiamo in mezzo alle case dei cristiani dove ci fermiamo per cena. È incredibile in questo campo profughi pieno di miseria e dove i sacchi di farina della FAO giungono alle porte dei caravan, la gente ha una enorme generosità. Nella famiglia cristiana dove ceno hanno messo sul tavolo tutto quanto hanno e lo condividono con gioia. Terminata la cena passiamo di casa in casa, chi vuole offrire un tè o un semplice bicchiere di acqua nel caldo torrido. Finché giungiamo alla casetta Yazida. Papà e mamma mi stanno aspettando e il chiasso dei bambini nel caravan è formidabile. Bedan, Faed, Rakana, Dalia, Arcan, Dial, Nafia Amin e Alia eccoli li tutti insieme. Tolgo gli scarponcini impolverati ed entro in casa, mi viene riservato per la notte un posto di onore, contro il muro e sotto la finestra. Vado in bagno perché mi rendo conto che nella notte tale operazione significherebbe svegliare o almeno disturbare tre piccoli bambini, che sono stesi uno vicino all’ altro! Ma Jamal mi dice, padre non ti preoccupare quando questi bambini dormono non si svegliano neanche con le cannonate! È vero, non ricordavo più il potente e profondo sonno dei bambini… I bambini mi guardano con curiosità e simpatia: Sono bellissimi! Dopo aver fatto i miei bisogni rientro nel caravan e alcuni di loro già dormono. La mamma ha vicino a se il più piccolino e si trova sdraiata dall’altra parte della stanzetta. MI viene in mente il soggiorno in una famiglia beduina nel deserto di Giuda nell’agosto dello scorso anno 2015. E.. si perché non immaginate che la stanza sia grande parliamo di circa 5 metri per 5 e per…. undici persone, dodici con me! Si è fatto tardi i bambini si stanno addormentando ed il capofamiglia mi dice in curdo buonanotte don gigi! Dalla finestra spalancata entra il fresco della notte, ormai è molto tardi e le voci del campo piano, piano diminuiscono, solo le voci delle guardie di sorveglianza ogni tanto si odono. A differenza dei bambini Yazidi e di quella famiglia il mio sonno purtroppo è leggero. Penso che il sonno profondo sia un dono che Dio concede alle anime in pace con se stesse. Penso al profondo sonno di Santina che durante la malattia era capace di dormire 10 ore di fila e il suo sonno iniziava e termina va con un grande sorriso! Penso al sonno pesante e sereno di Papa Francesco, penso al sonno profondo di Olinda, oppure di Nekesa e Albert nella capanna africana e lo confronto con il mio sonno breve e leggero. È vero io purtroppo non ho più quel sonno profondo che hanno i piccoli, le persone semplici e buone. Sono qui in un campo profughi, disteso su un misero materassino di gommapiuma, attorniato da nove angioletti che sereni dormono il sonno dei giusti. Il loro respiro leggero mi culla, mi riempie di pace, mi sento protetto da loro! Qui in Iraq, in un campo profughi con quattromila disperati… Sono qui ad imparare a dormire, da nove bambini miei professori in queste mie meditazioni notturne nel campo profughi. L’ Italia mi appare lontana e piena di rumore, qui nella miseria e nella insicurezza il sonno profondo quieto e forte di nove bambini Yazidi e dei loro semplici e buoni genitori. Non vi sono ratti o insetti, solo qualche fastidiosa zanzara, il caldo formidabile del giorno stempera nella notte e mentre ascolto il respiro di tutti quei bambini che mi culla, mi viene spontaneo pregare per loro. Gesù in questa notte mi sei particolarmente vicino attraverso questa numerosa famiglia in cui trascorro la notte. Non è la comoda camera di una casa di ferie al mare o in montagna, devo stare attento a come mi giro per non dare un calcio ad un bimbo o una gomitata ad un altro, si sta stretti in questa stanza, ma… Mi sembra di essere in paradiso! I piccolini mi insegnano il sonno profondo che io ho perso, questa famiglia mi insegna la povertà ed anche l’ospitalità. Quante cose imparo questa notte Gesù e che malinconia avrò la prossima notte senza loro, senza il loro respiro, senza la loro quiete! Mentre prego mi giro, un piccolino nel sonno si sta succhiando il pollice, una bimba appoggia la sua testolina su il mio gomito e Bedan allunga il piede sulla mia gamba, mi sento da loro imprigionato, no mi sento da loro protetto! Il padre vicino a me delicatamente mi libera, mi offre un bicchiere di acqua e mi augura la buona notte. Anche lui chiude gli occhi e si addormenta sereno. Recito le preghiere della sera che Santina mi aveva insegnato e concludo con un gesto semplice. È una famiglia non cristiana ma sono sicuro che anche loro sono la carne di Gesù: alzo il braccio destro, libero dalla piccola che mi dormiva sul gomito e do la benedizione a tutta la famiglia. E poi recito la frase: Il Signore ci conceda una notte serena ed un riposo tranquillo! Appoggio la testa sul mio zaino nero, lo palpo, riconosco al suo interno la Bibbia, accomodo bene il sacro libro inseparabile da me sotto la testa e miracolosamente sprofondo in un sonno pesante, come da molto tempo non avevo. Colpa della stanchezza o merito dei piccoli angeli che avevo attorno a me? La sera dopo ad Erbil quanta nostalgia per loro, una nostalgia che porto nel cuore e che mi fa bene: quando sono triste, penso a loro a quella meravigliosa famiglia Yazida, ed il loro ricordo mi infonde una grande pace, forse ben più grande di quella dei colleghi che non fanno turismo missionario e che preferiscono riposare in comode stanze al mare o in montagna. Proprio loro invito a seguirmi in questi viaggi scomodi, pazzeschi, e pieni di incomodità e pericoli ma che regalano al cuore una profonda pace e una nuova identità, perché a differenza di loro in un campo profughi disperso nel Kurdistan iracheno posso dire di essere stato ospite da Gesù, di averlo incontrato e di aver dormito al riparo dal demonio custodito da undici meravigliosi angeli: una povera coppia di sposi ed i loro nove bambini!

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TRA LE FILE DEI PESHMERGA
Nella mia permanenza in Iraq, un importante incontro l’ho avuto con i militanti dei peshmerga, in particolare con Josaphat un ragazzo grande e grosso che vive nel villaggio di Araden e che voglio proteggere con un falso nome. Sicuramente questi uomini sono una valida protezione contro l’ISIS in questa martoriata regione. Josaphat è sposato ed ha 3 bellissimi bambini, presta il suo servizio al fronte ed è stato per me una grande sicurezza muovermi con lui in tutto il Kurdistan iracheno. Si può dire che Lui è stato il mio protettore ed angelo custode in tutti i miei spostamenti in Jeep. Voglio ringraziarlo, anche se Josaphat mi dice che per la sicurezza sua e della sia famiglia devo parlare poco di lui e delle sue azioni militari che mi ha rivelato. Sono però stato tanto felice di poter frequentare loro in questa settimana e condividere le loro preoccupazioni e le loro gioie. Ma, vi chiederete, chi sono i peshmerga? Spero di non annoiarvi per cinque o sei righe, ma è necessario parlare bene di loro. I peshmerga sono combattenti curdi del Kurdistan nell’Iraq settentrionale. Sono stati attivi nei diversi sconvolgimenti della storia dell’Iraq dalla sua indipendenza, nella guerra Iran-Iraq, nella prima e nella seconda guerra del golfo. In seguito alla prima guerra del Golfo, tra il 1994 e il 1998 scoppiò una guerra civile tra i due maggiori partiti del Kurdistan iracheno, il PDK e l’UPK, e i Peshmerga si combatterono tra di loro. Nonostante i tentativi di unificare i Peshmerga dopo la fine della guerra civile, essi rimangono divisi tra unità sotto il comando del PDK e unità sotto il comando dell’UPK. Durante la seconda guerra del Golfo hanno cooperato con le forze speciali dell’Alleanza americana contro Saddam Hussein, salvando vari piloti e incursori sul loro territorio, e tenendo occupato l’intero V corpo iracheno nel 2003 a nord, impedendogli di schierarsi contro le forze alleate a sud. I Peshmerga si sono anche scontrati con il PKK turco, presente nella parte nord dell’Iraq, e con i guerriglieri islamisti di Ansar al-Islam. Nell’agosto 2014, alcuni battaglioni della milizia peshmerga sono stati integrati nella Guardia Nazionale Irachena (al-Ḥkharas al-Watanī), e sono parte della nuova 2ª divisione irachena, di base a Mossul. Attualmente hanno all’attivo circa 200.000 soldati. Oltre a disporre di un proprio arsenale, nella loro campagna contro lo Stato Islamico, dal 2014, i peshmerga hanno ottenuto massiccio supporto da nazioni estere.

ALQOS
42 gradi verso Alqos. Il caldo sale ed i due peshmerga che mi accompagnano guidano spericolatamente. Le curve sono micidiali a quella velocità e mandano lo stomaco sottosopra. Chiedo a loro alcune distanze. Duhok dista da Rakka 470 chilometri, la stessa distanza è con il confine dell’ Iran; Siria e Turchia molto più vicine, solo un’ora. Il paesaggio è una grande estensione bruciata dal sole, interrotta solo da trespoli dell’alta tensione. Proprio queste steppe vicine alla piana di Ninive hanno visto l’esodo ciclopico di 120.000 persone nella notte tra il 6 ed il 7 agosto 2014. Tutta questa gente è ora nei campi profughi e nelle parrocchie di San Giorgio nel villaggio di Mangesh e del Sacro Cuore nel villaggio di Araden, dove costruiremo proprio per loro 3 aule scolastiche. Siamo arrivati ad Alqos chiudo l’iPad. Una candida Madonna incoronata, che regge Gesù bambino sul suo braccio sinistro. Incastonata in una cappella del colore della pianura d’estate e protetta da una finestra dalle cornici bianche, sovrasta il cortile d’ingresso del monastero di Nostra Signora delle Messi ad Alqosh. Appena arriviamo Padre Joseph, l’Amministratore Apostolico del monastero ci manda al refettorio per mangiare. Riso in bianco, yogurt, frutta e verdura: un menù rigorosamente vegetariano come spetta ai monaici di questa comunità. Poi, mentre i due peshmerga attendono nel chiostro Padre Joseph mi invita per un caffè e li incontro la piccola comunità. Sul tavolo del suo studio la fotografia della sua mamma con la quale, mi dice, ci parla tutti giorni. Prendo in mano il quadretto e lo bacio due volte. Questo fatto conquista il cuore del religioso che inizia con me una amabile conversazione: «Non riesco proprio a pensare che in futuro Daesh potrebbe impadronirsi di questo monastero». «Se dovesse succedere, li ricacceremo via», lo confortano in coro gli altri monaci, nel frattempo i preziosi manoscritti sono stati trasportati ad Erbil in una casa religiosa, in casse chiuse e pronte per essere messi sul primo volo per l’Europa. Gli altri monaci ci lasciano e rimaniamo soli io e padre Joseph, che continua il suo accorato discorso: “Fino alla notte fra il 6 e il 7 agosto, vigilia della festa della Trasfigurazione, Nostra Signora delle Messi questo era il più grande monastero cristiano dell’Iraq coi suoi 11 monaci e l’eredità di una storia secolare, quella del monastero di sant’Ormisda che sorge due chilometri più in su, aggrappato a un fianco del monte Bayhidhra. Don gigi sei davanti ad un monastero, quello che poi nel pomeriggio visiterai, di grande importanza: si tratta del convento che promosse la ricongiunzione fra la Chiesa assira e quella cattolica, culminata nella creazione della Chiesa caldea in comunione con Roma nell’anno 1553 e che oggi è utilizzato solo per alcune cerimonie religiose, noi non viviamo infatti lì, vi è un custode nella montagna”. Padre Joseph sorseggia il suo caffè e continua: “Prima e dopo di allora Alqosh e i suoi due monasteri sono stati assaliti, saccheggiati e occupati innumerevoli volte, da parte di mongoli, tartari, curdi, ottomani, persiani, arabi e altri ancora, sempre con centinaia di morti. Stavolta sono stati evacuati nottetempo, senza perdite di vite umane e senza troppi danni materiali, e tuttavia il sentimento dominante è quello di una catastrofe imminente irreversibile: l’esodo permanente e l’estinzione definitiva di tutti i cristiani dall’Iraq”. Padre, mi puoi raccontare come avete vissuto la notte tra il 6 ed il 7 agosto 2014, esattamente due anni fa? Avete avuto paura? “La notte della vigilia della Trasfigurazione tutta la linea difensiva curda nella pianura di Ninive, da Karamlish a oriente fino a Tel Eskof a occidente, è arretrata sotto la pressione dell’avanzata degli armati dell’Isil, lo Stato islamico dell’Iraq, e del Levante, che tutti qui chiamano Daesh, dal suono delle lettere arabe che compongono l’acronimo. Centomila cristiani sono fuggiti nel massimo disordine verso le città curde di Erbil, Duhok e Zakho, dove tuttora si trovano, mentre le loro proprietà venivano occupate o razziate. Alqosh non è stata presa dai jihadisti dell’Isil, ma la sua popolazione – 8 mila residenti e 3 mila profughi di varia estrazione religiosa provenienti da Mosul e Tel Eskof in varie ondate – si è dileguata alla massima velocità”. IL padre ricorda molto bene le vicende di quella notte e io non posso esimermi dallo scrivere avidamente sui miei fogli di carta stroppiciati: sono davanti ad un testimone di quella atroce notte e questo testimone per mia fortuna parla italiano! Bevo un sorso di caffè e incalzo, raccontami padre, forse è la millesima volta per te, per me però è la prima!” «Siamo fuggiti a mezzanotte con le auto e dopo aver caricato i 18 bambini dell’orfanotrofio sulla loro corriera, senza poter prendere gli archivi storici con noi», Proprio una fuga vera e propria, con il pericolo della vita! «Questa invasione e questa cacciata, che io considero la conseguenza ultima delle politiche degli americani nel Medio Oriente in tutti questi anni, sono diverse da quelle del passato. Questi jihadisti non vogliono solo occupare e razziare, vogliono cancellare completamente tutto quello che c’era prima di loro». Padre Joseph, perché dici così? “Ti voglio parlare del monastero di san Giorgio alle porte di Mosul, appartenente anch’esso all’ordine antoniano. All’inizio i capi del Daesh avevano fatto sapere che nulla sarebbe stato toccato, e che in caso di danni avrebbero pagato loro dieci volte il valore delle cose rubate o distrutte. Avevano messo due uomini di guardia al cancello. Poi una mattina le guardie non si sono presentate. Qualche giorno dopo la statua della Vergine nel cortile era a terra in pezzi e al posto della croce in cima alla cupola c’era la bandiera nera dello Stato islamico. Da allora nessuno sa nulla di quello che è stato fatto o non fatto al monastero. Per saperne di più sulla Mosul dell’anno zero del Califfato, arrivando ad Erbil questa sera vai nei cortili e presso le altre strutture del compound della cattedrale caldea di Erbil, san Giuseppe. Li troverai la maggioranza dei 3.060 sfollati cristiani che affollano le aule della scuola parrocchiale, le aiuole, le tende sui prati, i prefabbricati e il perimetro esterno delle pareti della chiesa. Essi provengono da Qaraqosh, ma un certo numero sono arrivati da Mosul, dopo la scadenza dell’ultimatum ai cristiani del 20 luglio 2014, che lo Stato islamico aveva fatto dare attraverso gli altoparlanti delle moschee: o la conversione all’islam, o il pagamento della tassa di protezione e sottomissione (pari a 250 dollari mensili) o la morte. Ancora oggi, per ingraziarsi i residenti, il Califfato sta distribuendo benzina a prezzi irrisori fatta arrivare dalla Siria, dove l’organizzazione controlla pozzi petroliferi e raffinerie, ma nella maggior parte della città mancano acqua ed elettricità. In compenso sono stati emessi decreti molto dettagliati che vietano il fumo, l’alcool, capi di abbigliamento come i jeans e acconciature dei capelli non in linea con la tradizione islamica, che li esigerebbe lunghi e abbinati alla barba nel caso degli uomini. Quanto alle donne, niqab (sarebbe l’abito che copre integralmente il corpo lasciando appena una fessura per gli occhi) per tutte. Che i jihadisti abbiano il progetto di riportare le lancette della storia a istituzioni vigenti nel passato dei primi secoli dell’islam, lo si capisce da episodi come quello dell’asta pubblica di centinaia di donne yazide, al mercato di Nakkasa, uno dei più importanti di Mosul”. Appena il Padre Joseph mi accenna al mercato della donne yazide, la mia memoria va immediatamente ad Hazar. Quel monaco sta parlando ora ad una persona che ha toccato con mano una schiava dell’ISIS e che per diverse notti ha faticato a riposare pensando a lei ed alle sue lacrime. Padre Joseph se ne accorge dei miei pensieri… ai  quali do voce: “Si padre, ho parlato per quattro ore con una donna schiava di ISIS per quattro mesi nella città di Sinjar!” Padre Joseph viene ancor di più motivato nel raccontare e con voce decisa continua a tale proposito: “Secondo testimonianze provenienti dalla città per via telefonica, Daesh ha reintrodotto la schiavitù, mettendo in vendita sulla pubblica piazza le donne yazide catturate in varie località. Si racconta che un musulmano di buon cuore abbia acquistato tre di queste disgraziate, pagando 160 dollari per ciascuna, solo per poterle liberare e restituirle alle famiglie. Altri acquirenti sembrano essere stati mossi da ben altre motivazioni. Una cosa poco nota è che a Sinjar, capitale dello yazidismo in Iraq, esisteva anche una piccola comunità siriaca ortodossa di 100 famiglie. È verosimile che anche donne cristiane siano state sequestrate e poi messe in vendita come schiave insieme alle yazide. Altro dato di fatto, che fatica a filtrare in Europa, è che a Mosul e a Qaraqosh risiedono ancora singoli cristiani e addirittura famiglie cristiane, che per vari motivi non hanno voluto abbandonare la propria dimora. Ma che non escono di casa (consumano le provviste di riserva nella speranza di tempi migliori) o dal loro quartiere. Non pagano la jizah (la tassa per i cristiani) solo perché Daesh non ha ancora organizzato gli esattori o perché vivono in quartiere controllati da altri gruppi islamici estremisti, che gli uomini di al Baghdadi per il momento non intendono sfidare”. MI faccio molto triste e in modo molto attento mi appunto tutto nei fogli che sembrano non bastare più. Se ne accorge Padre Joseph e interrompendosi con un sorriso mi da altri fogli di carta bianca. Sorrido, ringrazio e lui prosegue: “Le altre notizie che arrivano dalla Piana di Ninive ,parlano di razzie in grande stile, in corso o in preparazione, ai danni delle proprietà dei cristiani e degli yazidi lasciate sul posto, alle quali si associano musulmani sunniti arabi dei villaggi vicini. «Tanti stanno fiancheggiando Daesh non per ragioni politiche, ma perché vogliono prendere parte ai saccheggi dei nostri beni: purtroppo le cose stanno così», mi ha spiegato un profugo”. Rimango esterrefatto da tutte questa notizie raccolte a 20 chilometri di distanza da Mosul”. Mentre parliamo bussano alla porta sono i miei due peshmerga che bussano, il tempo si è fatto breve e dobbiamo visitare il monastero sulla montagna prima di arrivare per sera ad Erbil. Con loro due appare Padre Rapahel, un giovane monaco che con forza ha difeso il suo monastero. Curioso di sentire un altro testimone chiedo a lui, ma tu Padre Raphael, non hai avuto paura dell’Isis? Il ragazzo abbastanza robusto mi guarda dritto negli occhi e mi dice: “Don gigi io sono stato ordinato sacerdote il 6 agosto 2012; esattamente due anni dopo il 6 agosto 2014 gli uomini di Dahesh stavano per aggredire il nostro monastero, indossai una t-shirt mimetica, sulla spalla mi misi un kalashnikov e una cartucciera attorno alla vita. Dormivo di giorno e stavo di sentinella tutta la notte su e giù per i cortili e le scale del convento. «Se Daesh deve entrare qui – dicevo – preferisco che credano che io sia una guardia della milizia di paese piuttosto che il monaco che sono in realtà: sono convinto che sarei trattato meno duramente». Ero deciso a dare la vita per proteggere il mio sacerdozio e tutti i monaci qui presenti!” Guardai con grande curiosità ed una sorta di perplessità quel giovanottone che sembrava però avere tutta l’ammirazione da parte dei miei due peshmerga… il sole era forte, ma verso le 14,30 uscimmo dal monastero per inerpicarci con la jeep sulla montagna ed ammirare l’antichissimo monastero di Ormisda. Il caldo raggiungeva i 46 gradi, ma i bravi peshmerga mi accompagnarono fino la cima, dalla quale si poteva vedere il territorio dello Stato Islamico a 15 km di distanza. Non gustai molto la bellezza di quel monastero antico, il mio sguardo era rivolto verso Mosul e Tel Eskof nelle mani di ISIS, pensavo a quei cristiani presenti in una città di un milione e mezzo di persone tutte musulmane e quel pensiero mi faceva accapponare la pelle, nonostante il caldo torrido iracheno… “Padre dobbiamo andare, ti dobbiamo portare con sicurezza fino a Erbil e poi noi dobbiamo tornare ad Araden. Tu sai che la  notte qui non è sicuro muoverci!” Guardai l’orizzonte e mandai un bacio, non a Daesh, ma quelle poche centinaia di cristiani che vivevano là, nascosti e pieni di paura. E dissi ai miei due peshmerga: “ Se noi ci salviamo, se andremo in Paradiso lo dobbiamo alle sofferenze dei fratelli cristiani che vivono con eroismo a Mosul e Tel Eskof ora che ho inviato un bacio a loro, possiamo andare ad Erbil, coraggio: un aereo questa notte mi attende per riportarmi a Roma!” I due soldati commossi mi abbracciarono forte e mi dissero… “ma non ti dimenticare di noi: torna presto, noi ti vogliamo bene Padre!” Asciugai furtivamente una lacrima mentre salivo nel retro della vettura e mi mettevo a recitare il breviario per quelle persone dolci e buone che con forza testimoniano Gesù.

TRE AULE DI CATECHISMO
Sto scrivendo in aereo da Istanbul a Roma; è l’ ultimo dei tre pezzi di aereo che nella notte mi ha portato da Erbil ad Ankara, da Ankara ad Istanbul ed ora da Istanbul a Roma. Gli occhi bruciano per la stanchezza, dalla sera di ieri ci si è messa anche la dissenteria…sono scottato dal sole e la testa è molto stanca, ma il cuore continua a scrivere. Torno in Europa con il progetto di tre aule di catechismo per la parrocchia di Araden vicino a duhok. Se non si viene in questa terra non si capisce nulla… Quando si palpa con mano, in modo forte ,quanto è avvenuto, allora si capisce la necessità di un intervento forte e robusto in aiuto di questa chiesa. Con la notte dell6 agosto 2014 sono arrivati in tutte le parrocchie di questa diocesi fiumi di rifugiati per il nome di Gesù, anche la parrocchia del Sacro Cuore ha avuto la stessa sorte delle altre. Padre Yoshia ha aperto, meglio spalancato, le porte di Araden e di Mangesh. Non esiste più centro parrocchiale, esso è divenuto un campo profughi. Ha svuotato le aule di catechismo e le ha trasformate in alloggi, in cui sono stipate diverse famiglie con particolari problemi come bambini handicappati oppure mamme in attesa di partorire, mentre gli spazzi esterni sono stati radicalmente trasformati: via i campetti sportivi , la diocesi ha comperato molti caravan e all’ interno, protetti dalle mura di cemento di quello che era il centro parrocchiale, oggi sorge un piccolo stipato campo profughi. Visito il campo con padre Yoshia. Come al grande campo dell’ ONU i bambini sono i padroni assoluti di questi spazi, li trovi dappertutto, davanti ai fornelli, vicino alle latrine, alle fontanelle di acqua e giocano, giocano, giocano e i loro colori, i loro sorrisi e le loro vocine trasformano i luoghi pieni di angoscia e incertezza per il futuro in luoghi sereni e di pace. Finché ci sono loro Daesh non vincerà! Per dare speranza si deve adottare il futuro! Parlo con il sacerdote, già dall’ Italia mi aveva parlato del suo progetto di costruire tre aule di catechismo, ma non capivo un cavolo. Perché tre aule di catechismo in un luogo dove vi sono gravi problemi? Andando in Iraq ho capito. La generosità e l’ ospitalità delle comunità cristiane irachene hanno annientato tutti gli spazi e i locali comuni per trasformarli in abitazioni. Talvolta è avvenuto così anche per la chiesa. Ed allora dove si fa catechismo? Dove ci si riunisce? Occorrono nuovi ambienti. Questa mostruosità di Daesh ha combinato anche qualche positività. I cristiani fuggiti da Mosul e dalla piana di Ninive non hanno smesso di essere cristiani per paura, no, assolutamente no, ma la contrario hanno aumentato la loro vita di preghiera e di fede. È aumentato il numero delle confessioni e tutti i bambini vanno al catechismo! L’ ho potuto sperimentare anch’ io, quando nella serata ho incontrato un gruppo di giovani composto e ben motivato, di grande maturità interiore. Forse in Iraq non vi è una bella vita, ma la buona vita quella sì! Entrando nei container e nei caravan tutti erano ricolmi di immagini sacre che riguardavano Gesù, la madonna e i numerosi santi che questa chiesa caldea venera, come la mamma dei maccabei. In Italia nelle nostre case sono sparite le immagini religiose, non si porta più al collo la croce, le donne non si velano il capo entrando in chiesa… E così stiamo preparando l’ invasione di Daesh , perdendo la nostra identità religiosa, avendo paura di fare un segno di croce davanti ad una chiesa o ad una immagine sacra. Chi di noi tiene in tasca la corona del Rosario? Chi va al catechismo? Chi partecipa alla messa della domenica e chi si confessa? E così spianiamo la strada all’ islamismo in Italia! Dobbiamo fare qualcosa e lo dobbiamo fare presto, prima che sia troppo tardi e poi… Abbiamo purtroppo un maledetto senso di sicurezza. L’ ISIS è lontano, non riguarda noi! Sentire sul proprio collo il fiato di Daesh a 30 chilometri da Alqos o a 45 km da Mosul mi ha fatto perdere la testa: ma allora sono qui, sono veri, potrebbero assalirmi da un momento all’altro! Che paura! E questa paura, quanto bene mi ha fatto nel provocarmi domande che rivoltano le budella e ti mettono a nudo! Ma fino a che punto sono cristiano? Fino a che punto io sono ateo invece e non lo so! Un recupero profondo della preghiera, una identificazione più intensa con la mia fede e con la dottrina che essa racchiude è l’ unico modo per evitare che Daesh invada la nostra cattolica Italia. Ed allora ecco il paradosso: dove vi è pericolo ,la fede di queste persone buone e semplici è granitica, di acciaio e al posto di rinunciare a pregare, dopo l’ esperienza terrificante di aver perso tutto, queste dolci e sfortunate persone si rituffano a capofitto nella preghiera e nella vita di fede. Dove invece la fede non corre pericoli, noi cazzeggiamo su tante cose, inventiamo iniziative sociali mirabolanti, ma non andiamo più in chiesa e al catechismo e così da una parte l’ ateismo, o il materialismo pratico, che ci svuota del senso religioso del vivere e dall’ altra parte l’arrivo del terrore nero, che è inutile negare, arriverà anche in Italia. Annienteranno la nostra cultura cattolica se immediatamente non ci metteremo in un atteggiamento penitenziale e di riscoperta di Lui, del signore Gesù. E così ,mentre lascio un luogo di disperazione e di angoscia che è l’Iraq, trovo però che questa gente, che annega nelle proprie lacrime di dolore al fondo del proprio cuore, ha la pace e la sopportazione, mentre in Italia nel benessere e nella comodità, senza dolori e paure ,trovo al fondo del cuore di molte persone una sempre più crescente oppressione. La parola depressione, anoressia, esaurimento nervoso non esiste nel campo di Dawdiya o nella parrocchia campo profughi di Araden o Mangesh. Mentre nelle nostre belle parrocchie, donne e uomini pieni di vuoto mi vengono a parlare di autentiche stronzate dell’ ultimo iPhone o del vestito alla moda o della tinta ai capelli. Persone vuote e senza significato, rammolliti e pappemolle riempiono le nostre chiese, gente senza palle. Queste persone, gli assatanati islamici non si degnano neppure di sgozzarle! Loro sgozzano uomini come padre Jacques, che tanto ho pregato in questi giorni! Lui sì che sgozzano, mentre celebra messa, perché di lui il demonio ha paura, non di noi cristiani senza palle, sdolcinati e incapaci di fatica e dolore! L’aereo sta entrando nello spazio italiano. Questo è ultimo pezzo che scrivo durante questo incredibile e meraviglioso viaggio, ma come vorrei che vi ferisse, che vi tagliasse la pelle, che vi bruciasse il cuore, per tornare ad essere i cristiani che hanno consapevolezza della propria fede e della propria identità. Siamo nell’anno della Misericordia e questo è un potente richiamo ad aprire il cuore alla sua misericordia, come Hazar , la Yazida schiava, mi aveva lasciato come augurio. Siamo nell’anno della Misericordia, torniamo al Vangelo, torniamo alla dottrina cristiana, torniamo a praticare la chiesa e a compiere opere di misericordia! A proposito, per favore ripetimi ora a memoria le opere di misericordia corporale e poi quelle spirituali…. Non le sai? Ti dico una cosa: questo scritto, che hai letto fin qui, è stato scritto esclusivamente per te: sei un cristiano all’ acqua di rose, proprio quello che prima ho descritto e forse ti dovresti vergognare un po’!

APPENDICE. GERUSALEMME

NELLA VALLE DE GIORDANO
Siamo al termine di una giornata intesa, cominciata alla pietra della tomba di Santina e che si è svolta in un viaggio interso in Galilea: Nazareth, il Tabor, ed ora la valle del Giordano fino a Gerico, dove ci attende una cena beduina e l’ immancabile Narghilè . Domani celebriamo il matrimonio di Cristina e Pierandrea ,alla Basilica del Santo Sepolcro. Sono giorni di preghiera e convivialità che a Cristina e Pierandrea servono per prepararsi al matrimonio ed a me a prepararmi al viaggio in Iraq. Un viaggio che unisce la contemplazione e la preghiera dei primi tre giorni con l’ azione degli altri sei giorni. Sono una sorta di Esercizi Spirituali che mi fanno essere prima Maria di Betania e poi Marta, le due amiche di Gesù, che lo ospitarono a casa loro. Sto purificando me stesso in questi tre giorni e ringrazio Dio di avermi messo sulla strada Pierandrea e Cristina, che mi costringono a preparami nella preghiera a questo viaggio nella Piana di Ninive, tra i disperati rifugiati, vittime dell’ISIS. Il sole sta tramontando e la stanchezza della lunga e calda giornata si fa senitire forte, ma nel cuore una grande gioia. Qui in Terra Santa e soprattutto a Gerusalemme, ora che Santina con le sue ceneri è sepolta nella città santa, quando torno mi sembra ancora di più di essere a casa…. E poi vi è il balcone di casa che la sera regala una vista incredibile sulla città contrassegnata da opposizione tra palestinesi ed israeliani, che anche nella serata di ieri ha provocato risse sotto casa. Si è fatto tardi, il nostro pulmino evita un camioncino che perde due pecore per la strada… In cielo, la luna illumina la nostra strada verso Gerico, le stelle si accendono e donano serenità alla notte carica di emozioni in questa magica sera mediorientale…

ANELLI NUZIALI ALLA TOMBA VUOTA
Sono a Istanbul, è il 15 agosto sera, sono le ore 21,20 e sono seduto di fronte al gate 301A, destinazione Erbil. Partiamo con Pegasus alle ore 22,10, stop ad Ankara e poi il grande salto in Iraq ,a Erbil, con atterraggio previsto domani mattina alle ore 1,45. Mentre mi preparo a questa settimana tra i rifugiati della Piana di Ninive, mi guardo attorno: ragazze e donne con il Burka, vestite rigorosamente di nero con il viso coperto, mi guardano, mi fissano e mi infastidiscono Non riesco molto a comprendere questo mondo che fascia totalmente la donna, ma il punto è che la donna sembra convinta di vestire così. Ieri a Gerusalemme abbiamo vissuto un bel momento di preghiera attorno all’avventura del patto nuziale stretto da Pierandrea e Cristina sulla pietra del santo sepolcro, la pietra dell’amore eterno. Loro hanno voluto fortemente questo matrimonio e loro hanno deciso di devolvere i doni del matrimonio in beneficenza, per la costruzione di un campo sportivo nel carcere di massima sicurezza di Challapalca in Perù . Siamo venuti da lontano per celebrare queste nozze. Ieri pomeriggio, domenica 14 agosto 2016, la preghiera degli sposi è iniziata sul terrazzo di casa, guardando la basilica del santo sepolcro . Hanno voluto ricevere il sacramento del perdono e dopo essersi confessati siamo scesi tra i camerieri che andavano e venivano indaffarati nel preparare la cena, una cena bella e semplice come dai tempi di Santina non vivevo a Gerusalemme, sul balcone di casa. Scendiamo nel cortile e Pierandrea e Cristina si danno dolcemente la mano ed insieme passano la porta santa del santuario della quarta stazione, dedicato a Santa Maria dello Spasimo. Recitiamo il Pater Ave Gloria, il Credo e ,dopo una breve preghiera alla tomba di Santina, usciamo felici, per aver vissuto proprio nel giorno del matrimonio l’indulgenza plenaria, concessa a coloro che passano la porta santa nell’anno della Misericordia. Felici i due sposi si incamminano lentamente sulla via dolorosa verso la Tomba Vuota. Recitiamo una preghiera semplice, il Rosario, e così, salendo i bianchi gradini della via dolorosa, levigati dal passaggio di milioni di pellegrini, arriviamo all’ingresso della basilica del Santo Sepolcro. Pochi parenti ci attendono, siamo in tutto, con suor Cecilia e fra’ Andrea, 15 persone. Entriamo nella basilica e poi dopo alcuni passaggi eccoci alla cappella dei crociati. Ci attende una cerimonia semplice ma intensa ,fatta di scelte importanti e fatta di grande emozione e commozione. Pierandrea e Cristina lo sanno e vivono con grande consapevolezza ogni istante: le letture, le preghiere dei fedeli, le risposte al rito del matrimonio, la scelta consapevole e matura di un sì maturato nel dolore e nella sofferenza, fino allo scambio degli anelli nuziali benedetti da Papà Francesco e l’ incontro con Gesù risorto nella comunione. Tutti commossi non ci siamo resi conto del tempo che passa, trasformandosi in una preghiera di un’ ora e quaranta. Fra’ Andrea concede loro un regalo il privilegio di entrare appena sposati nel Santo Sepolcro. Con grande commozione le due fedi strofinano le pietre sante, che accolsero Gesù morto per tre giorni. Quelle fedi dal sapore di pietra, nuovamente vengono scambiate dagli sposi, quasi a ridire in modo deciso che la loro unione ha senso solo in Gesù risorto. Usciamo tutti quindici dalla basilica con gli occhi umidi per l’ emozione ,come anni fa avveniva a Santina ed Olinda, dopo la celebrazione dell’ Unzione dei Malati, ricevuta da mamma, per ben cinque volte, al Santo Sepolcro. Cristina guarda Pierandrea e di nuovo lentamente ritorno verso casa. Alla quarta stazione delle via dolorosa vi è un appartamentino con un meraviglioso terrazzo e la festa torna a popolare casa mia! Lumi di candela, rose rosse, champagne, una cenetta araba con costolette di agnello e poi, per finire ,una meravigliosa torta. Danzano gli sposi sul terrazzo di casa, danzano la vita sotto una luna che ha luce intensa questa sera. Il panorama è un incanto, la brezza della sera scompiglia i capelli delle signore, la cupola d’oro della Moschea di Omar illuminata è la sovrana della notte orientale, qui a Gerusalemme, più in alto si vede la cupola del Santo Sepolcro e le stelle nel cielo accendono di speranza la festa. Una festa che dice consolazione, che dice rielaborazione di dolori e sconfitte, una festa che ha un forte significato di redenzione, la redenzione di un uomo ed una donna, che non più giovani, fanno sbocciare il fiore della speranza nella loro esistenza ed accendono di luce il futuro, nella sola consapevolezza che Lui, Gesù, è risorto e rende eterno l’amore tra uomo e donna. Devo chiudere l’lpad, l’imbarco è aperto per Erbil. Con il cuore colmo di questa speranza e di tanta pace parto per l’Iraq, per condividere con quei disperati la speranza che ho imparato in questi giorni a Gerusalemme e sono sicuro che sarà un viaggio meraviglioso. Buona notte mondo, ora voliamo a Mosul.

 

PROGRAMMA 17MO VIAGGIO DI SOLIDARIETA’ RESTORING HOPE IN IRAQ 2016
12 – 21 agosto 2016

GIORNO MATTINA POMERIGGIO SERA
ISRAELE 12 -15 AGOSTO 2016

 

1.Venerdì

12 agosto 2016

 

ITALIA TURCHIA ISRAELE

  – Ore 14,40 volo Roma – Istanbul ore 18,15 (Pegasus Airlines PC 0536)

– Ore 21,00 volo Istanbul- Tel Aviv arrivo 23.15 (PC 0785)

Transfer a Gerusalemme

2. Sabato

13 agosto 2016

 

ISRAELE

– ore 9,00 Partenza per Nazareth, ore 11,00 arrivo alla Basilica della Annunciazione, S.Messa e pranzo – ore 14,00 partenza per il Monte Tabor, visita del lago di Tiberiade e percorrendo la Valle del Giordano si giunge a Gerico

– ore 21,00 Cena al Tel di Gerico e rientro a Gerusalemme per mezzanotte

3. Domenica

14 agosto 2016

 

ISRAELE

– Ore 9,00 Partenza per Betlemme: visita alla Basilica della Natività e Campo dei Pastori

– Ore 11,00 Rientro a Gerusalemme pranzo al Notre Dame e preparativi per matrimonio di Pierandrea e di Cristina

 

 

– Ore 18,00 Basilica del Santo Sepolcro alla Cappella dei crociati matrimonio di Cristina e Pierandrea

– Ore 20,30 sulla terrazza di casa cena di festa con luci, fiori e musiche orientali

– Ore 24,00 fine dei festeggiamenti

4. Lunedì

15 agosto 2016

 

ISRAELE TURCHIA IRAQ

– Ore 9,00 Solennità dell’Assunta Celebrazione eucaristica alla chiesa di Nostra Signora dello Spasimo

– Ore 11,00 Basilica del Santo Sepolcro spiegazione archeologica del luogo della morte e risurrezione di Gesù

– Ore 12,00 partenza per Notre Dame Center

– Ore 13,00 pranzo e partenza per le ore 12,30 per aeroporto di Tel Aviv ed inizio di RESTORING HOPE IN IRAQ 2016

 

– Ore 15,40 Volo Tel Aviv – Istanbul ore 17,50 (PC 0784)

– Ore 22,10 Istanbul – Ankara arrivo ore 23.15 (PC 0524 cambio aeromobile)

– Ore 23.55 Ankara – Erbil arrivo ore 1,45 16 agosto

IRAQ 16- 21 AGOSTO 2016

 

5. Martedì

16 agosto 2016

 

IRAQ

 

ERBIL ANKAWA
MANGESH

– Ore 1,45 Arrivo ad ERBIL e trasferimento ad ANKAWA in Albergo Karlovy Vary Hotel +964.7706388232

– pranzo

 

– Ore 10.00 partenza per MANGESH, passando vicino all Piana di Ninive a 8 km da Mosul

– ore 14,00 arrivo a Mangesh e riposo e S. Messa

– ore 21 incontro con Ragheed profugo cristiano, prima introduzione realtà dei profughi cristiani

6. Mercoledì

17 agosto 2016

IRAQ

 

ARADEN
CAMPO DI
DAWDIYA

– Ore 9,00 partenza per Araden, celebrazione S. Messa

– Ore 11,00 incontro con il Vescovo di Duhok e firma progetto costruzione di tre aule di catechismo

– pranzo famiglia di d. Yoshia Sana

– ore 14.00 partenza per campo profughi di Dawdiya incontro con autorità del campo e inizio visita famiglie cristiane e yazide

– ore 20,30 cena e pernottamento ad Araden

7. Giovedì

18 agosto 2016

IRAQ

 

ARADEN
DAWDIYA

– 9,00 Visita di due antiche chiese ad Araden

– 10,00 partenza campo profughi di Dawdiya e incontro con Direttrice Clara

– 12,30 partenza per Duhok incontro con BHRA per apporre Logo di Associazione Santina nel Campo profughi e ritorno a Dawdya

– ore 15,00 Incontro con Hazar, la yazida schiava di ISIS

– ore 19,00 partenza per Mangesh

– ore 19,30 Celebrazione Messa

– ore 20,30 partenza per campo profughi di Dawdiya

– ore 21,00 cena da Samir incontro con famiglia cristiana per adozione a distanza e pernottamento in caravan da famiglia cristiana

8. Venerdì

19 agosto 2016

IRAQ

 

ARADEN
MANGESH

– 9,00 incontro con Hazar per fotografie

Colazione con Direttrice e protocollo adozioni a distanza per dieci persone del Campo

– con padre Yoshia incontro ultima famiglia Yazida per adozione a distanza

– 13.00 pranzo a Duhok

– ore 14,00 Rientro a Mangesh, Messa

– ore 18,00 Incontro con gruppo di giovani della parrocchia di Mangesh

– cena di festa con alcuni di loro

9. Sabato

20 agosto 2016

IRAQ

 

MANGESH
ALQOS
ANKAWA

– 9,00: visita alla costruzione del Santuario di Nostra Signora del Kurdistan

– visita Campo dei profughi nella Parrocchia di Araden e preghiera insieme

– partenza per Alqos

– 14,00 pranzo nel Monastero

 

– 15,00 Incontro con la comunità dei 6 padri e visita dell’antico monastero del settimo secolo

– 16,00 partenza per Erbil

– 18,30 arrivo Erbil cena e riposo

10. Domenica

21 agosto 2016

 

IRAQ TURCHIA
ITALIA

– ore 3.20 Volo Erbil – Istanbul ore 7,00

(PC 0525)

– Ore 11,50 Volo Istanbul – Roma arrivo ore 13.40 (PC 0535)

– Celebrazione Santa Messa e conclusione del 17mo Viaggio di Solidarietà Restoring Hope in Iraq.